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LA SUPPOSTA

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Le supposte sono preparazioni farmaceutiche solide, generalmente di forma ogivale, che sono destinate all’introduzione in cavità naturali quali l’ano (supposte rettali, più semplicemente supposte), l’uretra (supposte uretrali, più note come candelette) e la vagina (supposte vaginali, meglio conosciute come ovuli vaginali).

La supposta è costituita da un componente di base (storicamente burro di cacao, oggi miscele di gliceridi), e da uno o più principi attivi disciolti o dispersi nella base. Gli eccipienti base per la preparazione di supposte devono trovarsi allo stato solido ed essere sufficientemente rigidi per l'introduzione nell'ampolla rettale a temperatura ambiente e fondere alla temperatura corporea. In particolare si possono avere basi lipofile (formate da miscele di gliceridi) o idrosolubili (a base di PEG).

Altri eccipienti che possono essere aggiunti nella formulazione di supposte comprendono adsorbenti, tensioattivi, lubrificanti, conservanti antimicrobici e coloranti.

Le supposte possono essere preparate con due metodi diversi: a freddo (per compressione) o a caldo (per fusione). Il metodo per compressione era usato tra Otto e Novecento e si basava sull'ottenimento per via meccanica di cilindri di sostanza successivamente suddivisi in pezzi di uguale lunghezza e modellati a cono. Il procedimento per fusione è quello oggi più usato, sia su scala magistrale sia industriale, e si basa sulla colata di una massa fusa in appositi stampi.

Nelle supposte con azione farmacologica lo scioglimento della sostanza di base o eccipiente consente il rilascio del medicamento che può avere azione locale (ad esempio utilizzando sostanze vasocostrittrici nel trattamento delle emorroidi) oppure essere rapidamente assorbito dalla mucosa rettale riccamente vascolarizzate dalle vene emorroidarie ed essere introdotto nella circolazione sanguigna generale arrivando agli organi bersaglio. Supposte di questo tipo devono essere assunte a seguito della defecazione, per evitare che possano essere evacuate prima del completo assorbimento del farmaco.
Nel caso di supposte senza azione farmacologica (abitualmente a base di glicerina) lo scioglimento genera una lubrificazione del retto finalizzata a facilitare l'evacuazione.



Il principio attivo che compone le supposte viene scelto in funzione del disturbo a cui si desidera porre rimedio; il farmaco viene sempre formulato in associazione ad eccipienti, utili per contenere il principio attivo, favorirne la fusione a contatto con il calore del corpo, e forgiare la supposta.
La particolarità delle supposte risiede proprio nella peculiare composizione solida: introdotta nell'organismo (nel retto, nella vagina o nell'uretra) sottoforma solida, la supposta si dissolve rapidamente e, successivamente, viene assorbita per merito dei vasi sanguigni.
Alcune supposte sono formulate con una base oleaginosa, come il burro di cacao, nel quale il principio attivo viene dissolto; altri suppositori - specie quelli ad uso vaginale ed uretrale - sono costituiti da glicole propilenico, un eccipiente idrosolubile.
Esistono anche le cosiddette supposte liquide, in cui la somministrazione del farmaco (generalmente un lassativo) viene effettuata tramite una siringa apposita, direttamente nel retto.

Le supposte vaginali comprendono una serie di preparazioni farmacologiche ad uso prettamente ginecologico: tra i suppositori vaginali, ricordiamo: ovuli vaginali, compresse vaginali e creme da applicare internamente tramite apposita cannula. Anche questa categoria di farmaci può esercitare il proprio effetto terapeutico a livello locale e sistemico: alcune supposte vaginali sono formulate con un miscuglio di lattobacilli, utili per assicurare l'equilibrio della flora batterica vaginale; altre sono composte da antibiotici (per esempio, per debellare le infezioni batteriche, sostenute da Trichomonas vaginalis, Mycoplasma hominis, Neisseria gonorrhoeae, ecc.), antifungini (per la cura delle infezioni da Candida albicans) ed antivirali (per trattare le infezioni da virus, come quelle sostenute da Herpes simplex).

Le supposte uretrali sono indicate per trattare i disturbi maschili, tra tutti la disfunzione erettile e l'impotenza; negli Stati Uniti, il nome commerciale di questi particolari suppositori è MUSE, acronimo di Medical Urethral System for Erection. Queste particolari formulazioni farmacologiche sono dispositivi transuretrali componibili, in cui il farmaco viene introdotto nell'uretra tramite l'apposito applicatore "a pistone".

A differenza dei farmaci somministrati per uso orale, le supposte da assumere per via rettale non provocano irritazione gastrica, dal momento che non passano attraverso lo stomaco.
Altro vantaggio importante, che differenzia le supposte rettali dalle compresse orali, riguarda gli enzimi: i farmaci che sarebbero inattivati dagli enzimi gastrici rimangono tali quando applicati per via rettale.
In caso di vomito, anche dopo aver assunto una supposta rettale, non si presenta il problema caratteristico dei farmaci orali: come sappiamo, quando sopraggiunge prima che il principio attivo sia stato completamente assorbito dall'organismo, il vomito può compromettere l'efficacia del farmaco. Per le supposte rettali, questo problema non sussiste.
Le supposte sono particolarmente indicate a seguito di interventi chirurgici gastrointestinali, così come nei bambini e negli anziani che faticano a deglutire medicinali per bocca.

Nonostante la mucosa rettale sia piuttosto ricca di vasi sanguigni, la supposta viene posta a contatto con un'area di assorbimento marcatamente ridotta rispetto a quella intestinale; di conseguenza, l'assorbimento del farmaco per via rettale è ridotto se raffrontato a quello dei medicinali assunti per via orale. Inoltre, l'assorbimento del farmaco formulato sottoforma di supposte, così come la sua disponibilità, non è costante né tantomeno prevedibile: in funzione del punto in cui il principio attivo giunge, può essere assorbito dal plesso emorroidario inferiore, oppure dal tratto medio o superiore: per questo motivo, il farmaco può passare o meno attraverso il fegato.
La zona in cui la supposta rettale esercita la propria azione è soggetta ad irritazione; non a caso, molte supposte sono formulate con principi attivi lassativi, che favoriscono l'evacuazione esercitando una blanda irritazione della mucosa anale.
Da non sottovalutare un altro importante elemento: i batteri che colonizzano l'ano e il retto possono talvolta inattivare parte del principio attivo, riducendo, quindi, l'attività del farmaco.

Per ottenere il massimo dell'efficacia terapeutica, l'inserimento corretto della supposta risulta importantissimo.
Nel caso la supposta fosse morbida, si consiglia di porla in frigorifero per alcuni minuti, oppure di lasciarla in acqua fredda (prima di aprire la confezione) per dare modo agli eccipienti di solidificare la supposta.
Rimuovere l'involucro di rivestimento.
Eventualmente, tagliare la supposta con un panno morbido (in base alla posologia prescritta dal medico).
Se necessario, indossare un guanto in lattice.
Si consiglia di lubrificare la parte alta della supposta, per facilitare il suo inserimento nel retto.
Sdraiarsi su un fianco, con la gamba che poggia a terra distesa, l'altra leggermente piegata in avanti, verso l'addome.
Sollevare un gluteo ed inserire la supposta nel retto, affinché oltrepassi lo sfintere muscolare anale.
Si consiglia di mantenere la posizione sdraiata su un fianco per pochi minuti, per evitare che la supposta venga espulsa.
Lavarsi accuratamente le mani.



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IL DALTONISMO

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I daltonismo (nome scientifico: discromatopsia) è un’anomalia nella percezione del colore. Il disturbo più comune consiste nella difficoltà di distinguere il rosso dal verde. Più rari sono la tritanopia, cioè l’incapacità di vedere il blu, e l’acromatopia, o cecità ai colori. I colori vengono percepiti da cellule specializzate della retina, chiamate coni: ce ne sono tre diversi tipi, sensibili rispettivamente alla luce blu, verde, e rosso-gialla. Quando uno o più tipi di coni sono difettosi, la percezione del colore è alterata.

Benché venga generalmente considerata una disabilità, in alcune situazioni il daltonismo può rivelarsi vantaggioso; un cacciatore daltonico, ad esempio, può riuscire a distinguere meglio una preda mimetizzata su uno sfondo caotico.

Fu il chimico inglese John Dalton a dare, nel 1794, una descrizione scientifica del daltonismo, pubblicando l'articolo intitolato "Extraordinary facts relating to the vision of colours" ("Fatti straordinari legati alla visione dei colori"), dopo essersi reso conto della propria cecità cromatica.

Il tipo di daltonismo di cui Dalton era affetto oggi prende il nome di deuteranopia, cioè insensibilità al colore verde. Altre forme di daltonismo sono la protanopia (per il colore rosso) e la tritanopia (per il colore blu).

Il daltonismo ha una diffusione significativa, benché la sua incidenza vari molto all'interno di diversi gruppi umani. Comunità isolate, con un patrimonio genetico relativamente ristretto, a volte presentano un'alta proporzione di individui affetti da cecità ai colori, anche dei tipi più rari. Alcuni esempi sono l'Australia, in cui si stima che il 4% della popolazione abbia una qualche carenza nella percezione del colore, le regioni rurali della Finlandia e alcune isole della Grecia.

Esistono diversi tipi di daltonismo. I più diffusi sono dovuti ad alterazioni ereditarie dei fotorecettori, i coni, ma è anche possibile diventare daltonici in seguito a un danneggiamento della retina, del nervo ottico o di determinate aree della corteccia cerebrale. Tale daltonismo è spesso diverso da quello di origine genetica; ad esempio, può manifestarsi solo in una parte del campo visivo. Alcune forme di daltonismo acquisito sono reversibili. Alcune forme temporanee di daltonismo affliggono raramente chi soffre di emicrania.



Il daltonismo genetico è normalmente dovuto a un allele recessivo posto sul cromosoma X. La mappatura del genoma umano ha peraltro dimostrato che il daltonismo può essere indotto da una mutazione in 58 geni diversi, divisi tra 19 cromosomi.

Questo tipo di daltonismo colpisce circa il 5-8% degli uomini, ma meno dell'1% delle donne. La maggior probabilità degli uomini di esprimere un fenotipo recessivo legato al cromosoma X è dovuta al fatto che i maschi hanno un solo cromosoma X, mentre le donne ne hanno due; se le donne ereditano un cromosoma X normale oltre a quello mutato, non mostreranno la mutazione, mentre gli uomini non hanno cromosomi X "di scorta" che contrastino il cromosoma X mutato. Se il 5% delle varianti di un gene sono difettose, la probabilità che una copia singola sia difettosa è del 5%, ma la probabilità che entrambe siano difettose è (5% × 5%) = (0,05 × 0,05) = 0,0025, ovvero 0,25%.

Non sono ancora note cure per tutte le forme di daltonismo, ma è stato elaborato un software apposito dedicato a coloro che soffrono di daltonismo e anche delle lenti correttive per daltonici. Alcuni tipi di daltonismo sono suscettibili di miglioramento mediante operazioni chirurgiche. Sono inoltre state sviluppate anche delle applicazioni per smartphone che permettono di simulare e di correggere la visione discromatica. Tali strumenti non sono comunque risolutivi del problema.

La diagnosi viene eseguita mediante un esame cromatico del riconoscimento dei colori. Spesso vengono utilizzate le tavole di Ishihara (tavole numeriche disegnate per eseguire un test rapido nel riconoscimento dei colori) oppure, per approfondire maggiormente, si può effettuare il test di Farnsworth, che consiste nel mettere nella corretta successione tonale una serie di colori. Infine, sono stati elaborati dei software (ad esempio applicazioni per dispositivi elettronici come telefoni cellulari o tablet) che possono, in prima battuta, consentire di rilevare eventuali difetti nella percezione cromatica. 




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CALCOLI RENALI

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I calcoli renali sono dei depositi di consistenza dura che si formano per precipitazione dei sali minerali contenuti nelle urine (calcio, ossalato, fosfati ed acido urico). La formazione di un calcolo è favorita dall'aumento della concentrazione di questi elettroliti o dalla riduzione del liquido che li tiene in soluzione (scarso volume di urine).
Quando i sali si aggregano tra loro formano dapprima cristalli, quindi microcalcoli ed infine calcoli che possono raggiungere le dimensioni di una pallina da golf. Proprio a causa della loro forma e composizione chimica i calcoli renali possono muoversi dalla sede di origine e andare ad ostacolare il flusso dell'urina. Tale ostacolo, oltre a causare un dolore spesso intenso, favorisce lo sviluppo di infezioni urinarie e, se persiste per lunghi periodi, aumenta le possibilità di danno ai reni, fino a sviluppare una insufficienza renale progressiva.
Normalmente le urine contengono sostanze che impediscono la formazione di calcoli, ma non sempre tali composti sono presenti in quantità adeguate o svolgono efficacemente la loro funzione. Oggi se ne conoscono due categorie: macromolecolari (di natura proteica) e micromolecolari come il citrato o il magnesio. Anche i mucopolissaccaridi, grazie alle loro proprietà colloidali  favoriscono il mantenimento in soluzione dei sali allontanando la formazione di calcoli renali.

Per dare dolore, il calcolo renale deve ostruire il passaggio dell'urina (si parla in questo caso di colica renale). L'ostruzione può avvenire all'interno dello stesso rene o più facilmente nel passaggio tra l'organo emuntore e l'uretere (piccolo canale che collega il rene alla vescica).
Fortunatamente non tutti i calcoli si muovono e non è detto che chi ha un calcolo debba aspettarsi una colica. Anche se alcune persone non avvertono alcun sintomo la maggioranza dei pazienti affetti da questo tipo di calcolosi lamenta alcuni disturbi premonitori come bruciore e stimolo frequente di urinare.
Alcune coliche sono molto dolorose, mentre in altri casi il dolore è blando e sfumato. Ciò dipende non tanto dalle dimensioni del calcolo quanto dalla formazione anatomica del rene, dalla soglia di sensibilità al dolore e da molti altri fattori che possono accentuare o ridurre la sintomatologia dolorosa.
Generalmente la colica renale causa comunque un dolore intenso ed improvviso che compare al fianco, solitamente da un solo lato, costringendo il paziente a piegarsi su se stesso e a chiedere con insistenza l'aiuto degli astanti. Tale dolore può procedere a fasi alterne diminuendo di intensità per un attimo, per poi peggiorare rapidamente. Successivamente il dolore tende ad irradiarsi anteriormente e a scendere in basso verso l'inguine; qualche volta le coliche si associano a dolore testicolare o al grande labbro nella femmina.
Quando il calcolo si muove scendendo nell'uretere ed avvicinandosi alla vescica possono comparire ulteriori sintomi come il bisogno frequente di urinare ed il bruciore; a tutti questi segni possono associarsi altri disturbi come la nausea, il vomito e la presenza di urine torbide, a volte con sangue e di cattivo odore. Altre volte vi è una incapacità totale di emettere urine.

L’alimentazione svolge un ruolo di primaria importanza nella prevenzione dei calcoli renali. E’ fondamentale bere quanti più liquidi è possibile, soprattutto acqua, per arrivare a produrre almeno due litri di urina nell’arco di 24 ore.
Specialmente in passato si raccomandava ai pazienti affetti dal disturbo di non assumere troppi latticini o prodotti caseari ad alto contenuto di calcio. In realtà questi cibi non sono responsabili dei calcoli; più che altre si dovrebbe fare attenzione agli integratori di calcio o agli alimenti arricchiti con vitamina D.
Si dovrebbe cercare di ridurre l’uso del sale da cucina e il consumo di carni conservate, oltre che di certi tipi di pesce. E’ importante un’adeguata assunzione di cibi ricchi di fibre.

La cura per i calcoli renali, quando si presentano le coliche, si basa sull’uso di farmaci antispastici e analgesici per alleviare il dolore. Per favorire l’eliminazione del calcolo, si ricorre al metodo che viene chiamato “colpo d’acqua”: il soggetto deve bere rapidamente un litro di acqua, per scatenare una spinta urinaria che ne faciliti l’espulsione. Quest’ultima avviene nell’80% dei casi, se il calcolo ha un diametro inferiore ai 4 millimetri.
Altre volte è necessario l’intervento del medico, che, attraverso delle onde d’urto o per mezzo di una sonda, frantuma i cristalli, che poi possono venire espulsi più facilmente. Il trattamento chirurgico di solito può essere considerato l’ultimo passo, dopo che altre tecniche non hanno funzionato.

A volte si può rimediare al dolore immergendosi in una vasca colma d’acqua molto calda. Il calore è in grado di esercitare un effetto vasodilatatorio, favorendo il rilassamento della muscolatura.
Come ha dimostrato uno studio portato avanti dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo, una spremuta di limone potrebbe rivelarsi efficace nella prevenzione del problema.
Per facilitare l’espulsione del calcolo, potrebbe essere utile il ricorso ad alcune piante, che hanno un’azione diuretica: betulla, tarassaco, verga d’oro, gramigna.



I calcoli renali e le coliche, uno dei disturbi urologici più dolorosi, affliggono la specie umana da millenni, addirittura i ricercatori hanno trovato tracce di calcoli renali in una mummia egizia risalente a 7.000 anni fa.

Sfortunatamente i calcoli renali sono uno dei disturbi più comuni delle vie urinarie, ogni anno si registrano negli Stati Uniti circa 3 milioni di visite mediche e più di mezzo milione di persone si reca al pronto soccorso per complicanze come le coliche renali.

La maggior parte dei calcoli viene espulsa dal corpo senza che sia necessario alcun intervento medico, ma quelli che provocano sintomi di lunga durata o altre complicazioni possono essere curati usando varie tecniche, che per la maggior parte non comportano alcun intervento chirurgico.

Recenti scoperte scientifiche ci hanno permesso di capire meglio i diversi fattori che provocano la comparsa dei calcoli e quindi di ideare terapie migliori per prevenirli.

Per le donne la maggiore insorgenza si registra intorno ai cinquant’anni.

I calcoli renali possono contenere diverse combinazioni di sostanze chimiche, il tipo più comune contiene calcio, combinato con l’ossalato oppure con il fosfato. Queste sostanze chimiche fanno parte della dieta normale e vanno a costruire parti importanti dell’organismo, come le ossa e i muscoli.

Un tipo meno comune è quello causato da un’infezione delle vie urinarie, in questo caso si parla di calcoli di struvite od infettivi. Un altro tipo, quelli da acido urico, è ancora meno frequente, mentre i calcoli di cistina sono rari.

La cistinuria e l’iperossaluria sono altri due rari disordini metabolici che spesso provocano la formazione di calcoli renali.

Nella cistinuria, viene eliminata troppa cistina (un aminoacido che non si dissolve nell’urina) e questo provoca la formazione di calcoli costituiti appunto da cistina.
Nei pazienti affetti da iperossaluria l’organismo produce troppo ossalato (un sale). Se le urine contengono una maggiore quantità di ossalato insolubile i cristalli si depositano e formano i calcoli.
L’ipercalciuria è una malattia ereditaria e rappresenta la causa principale del problema in più della metà dei pazienti. Il calcio viene assorbito dagli alimenti in quantità maggiore del dovuto e quindi passa nell’urina. L’elevato livello di calcio nell’urina provoca la formazione di cristalli di ossalato di calcio o fosfato di calcio nei reni, oppure in altre zone dell’apparato escretore.

Tra le altre cause della formazione di calcoli troviamo l’iperuricosuria, un disturbo del metabolismo dell’acido urico, la gotta, l’assunzione eccessiva di vitamina D, le ostruzioni e le infezioni delle vie urinarie. Alcuni diuretici e antiacidi a base di calcio possono far aumentare il rischio di formazione di calcoli renali perché accrescono la quantità di calcio presente nell’urina.

I calcoli di ossalato di calcio possono comparire anche nelle persone affette da infiammazioni croniche dell’intestino o che si sono sottoposte a un’operazione di bypass intestinale od intervento di stomia. I calcoli di struvite si possono formare nei pazienti che hanno sofferto in passato di infezioni delle vie urinarie. Anche le persone che assumono l’inibitore delle proteasi indinavir, un farmaco usato per curare l’infezione da HIV, possono essere maggiormente a rischio per quanto riguarda i calcoli renali.

Spesso i calcoli silenti, cioè quelli che non provocano sintomi evidenti come la colica renale, possono essere individuati da una radiografia, durante un esame di routine. Se i calcoli sono piccoli nella maggior parte dei casi verranno espulsi senza creare problemi, spesso invece i calcoli renali vengono individuati da una radiografia o da un’ecografia, richiesta dal paziente che lamenta presenza di sangue nelle urine od un dolore improvviso. Queste immagini diagnostiche forniscono al medico informazioni importanti sulla dimensione e sulla posizione del calcolo, mentre gli esami del sangue e delle urine possono permettere di individuare qualsiasi sostanza anomala che potrebbe favorire la formazione del calcolo.

Il medico può decidere di esaminare le vie urinarie usando uno speciale esame chiamato tomografia computerizzata oppure un pielogramma intravenoso (IVP). I risultati di questi esami aiuteranno a decidere qual è la terapia più adatta.

Per fortuna di solito non è necessario ricorrere all’intervento chirurgico, perchè la maggior parte dei calcoli renali vengono espulsi naturalmente se si beve molta acqua (due o tre litri al giorno), che facilità il movimento del calcolo. Spesso il paziente può restare a casa durante questa terapia, bevendo molti liquidi ed assumendo farmaci analgesici se necessario. Il medico di solito chiede al paziente di conservare il calcolo, una volta espulso, per ulteriori analisi di laboratorio (per raccoglierlo si può usare una tazza o un colino).

Chi soffre di alti livelli di acido urico dovrebbe mangiare meno carne, pesce e pollame; questi alimenti sono responsabili di un aumento della quantità di acido urico nell’urina.

Per prevenire i calcoli di cistina il paziente dovrebbe bere ogni giorno abbastanza acqua da diluire la concentrazione urinaria della cistina, ma questo processo non è né semplice né lineare. Potrebbe essere necessario bere circa quattro litri d’acqua nelle 24 ore, e circa un terzo di questa quantità dovrebbe essere bevuto durante la notte.




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LINGUA BIANCA

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La lingua bianca è un fenomeno abbastanza diffuso, sia fra i bambini che fra le persone più anziane. Generalmente il problema lingua bianca consiste in una patina più o meno sottile che ricopre la lingua e che è costituita da cellule morte, residui alimentari, batteri ecc.

Le cause che sono alla base della lingua bianca sono numerose e decisamente diverse fra loro; sostanzialmente possiamo operare una distinzione fra cause non patologiche e cause patologiche.

Molto spesso i problemi che portano alla formazione della lingua bianca sono estremamente banali e, conseguentemente, facilmente risolvibili, altre volte alla base vi è un problema di maggiore serietà.

Una delle cause più comuni è sicuramente una cattiva igiene orale. Se la nostra igiene orale è scarsa o comunque viene eseguita in modo scorretto, la normale placca batterica non viene rimossa in modo adeguato e ciò può portare all’antiestetica formazione di una patina bianca sulla lingua.

Talvolta però la lingua bianca può essere dovuta proprio a un’igiene orale molto accurata; l’utilizzo infatti di collutori a base di perossido di idrogeno può avere come effetto la formazione di macchie bianche sulla lingua.

La secchezza delle fauci (più popolarmente bocca secca o, più raramente, xerostomia) può essere causa di lingua bianca perché quando il cavo orale è secco le cellule che di cui è composto si sfaldano più facilmente andando ad aumentare il deposito di cellule morte presenti sulla lingua. La bocca secca è un problema di natura iatrogena (è cioè legato all’assunzione di farmaci) e che è una condizione abbastanza comune nei forti fumatori.
Alcuni farmaci possono causare xerostomia ma anche alterazioni della flora batterica dell’organismo, fra cui anche quella intestinale e quella orale; una delle conseguenze di queste alterazioni è la formazione di una patina biancastra sulla superficie della lingua.
Altra causa di lingua bianca è un’alimentazione sbilanciata. Quando l’alimentazione non è equilibrata (ovvero quando siamo in presenza di iperalimentazione o al contrario di un regime eccessivamente restrittivo) si verificano squilibri della flora batterica; ciò ha, fra le diverse conseguenze, un deposito di un sottile strato mucoso che conferirà alla lingua un colore tendente al biancastro.

Anche lo stress può essere causa di lingua bianca; è infatti noto che quando un organismo è sotto stress, le ghiandole surrenali aumentano la produzioni di ormoni fra i quali vi è l’adrenalina; l’incremento dei livelli di adrenalina produce delle modificazioni nella composizione di sudore e saliva, ciò può favorire la comparsa di lingua bianca.

La comparsa di lingua bianca è un segno molto comune nei portatori di protesi dentali; essenzialmente il problema è legato al fatto che la presenza di protesi dentali causano un aumento della proliferazione batterica e, se l’igiene non è totalmente adeguata, si può verificare la comparsa di lingua biancastra.

La leucoplachia è una condizione patologica di una certa serietà nella quale è presente come segno la lingua bianca; con questo termine ci si riferisce a una lesione precancerosa spesso correlata al fumo e al consumo di alcolici; la leucoplachia è caratterizzata dalla presenza di placche biancastre (leucoplachia deriva dati termini greci leuco, bianco e plakos, placca) che possono interessare non soltanto la lingua, ma anche altre zone del cavo orale, in particolare le mucose interne di labbra e guance (può esservi addirittura il coinvolgimento delle mucose laringee e degli organi genitali, ma la leucoplachia orale è la forma maggiormente diffusa).

Spesso la lingua, oltre al colore biancastro, è caratterizzata da striature di colore rosso; la condizione in questione è spesso causa di sensazioni fastidiose all’interno della bocca e di un’alterazione del gusto.

La lingua bianca è anche uno dei vari segni che caratterizzano la scarlattina, nota anche come seconda malattia; nei soggetti affetti da scarlattina infatti la lingua diventa biancastra ed è punteggiata da diverse macchie di colore rosso (si parla di lingua a fragola bianca); tale quadro poi tende a mutare e in seguito si parlerà di lingua a fragola rossa. Occorreranno diversi giorni prima che la lingua torni ad assumere il suo normale aspetto.

La lingua bianca può essere dovuta a candidosi orale, una micosi che è popolarmente conosciuta come mughetto.



Vi sono numerose altre patologie e condizioni che possono avere come sintomo la lingua bianca; fra queste si ricordano cirrosi epatica, la gastrite, l’epatite virale, il diabete mellito, la cattiva digestione e, in generale, le patologie che coinvolgono fegato e intestino e che sono all’origine di un malfunzionamento dell’apparato digerente.

Il lichen planus è una patologia infiammatoria a carattere cronico che interessa frequentemente la mucosa orale, anche se può manifestarsi a livello cutaneo e sugli organi genitali. Le manifestazioni a livello orale (lingua e mucose) sono variabili; spesso si tratta di lesioni multiple e bilaterali che hanno l’aspetto di strie reticolari o placche biancastre; talvolta queste lesioni sono associate a ulcere dolorose.

Il fenomeno della lingua bianca è spesso associato alla presenza di alito cattivo (alitosi), che si può risolvere risalendo alla radice del problema.

Un’altra causa che può concorrere al fenomeno della lingua bianca è lo stato di disidratazione che viene percepito dal paziente come persistente secchezza delle fauci. Quest’ultima alimenta naturalmente anche il problema dell’alito cattivo. Una volta esclusi gli altri fattori che potrebbero causare la lingua bianca, è comunque sufficiente bere almeno 1,5 litri di acqua al giorno per permettere alla lingua di recuperare il suo aspetto morbido e roseo.

Anche il tipo di alimentazione incide sull’aspetto della lingua: la patina bianca si manifesta quando la dieta è troppo ricca di lipidi (cibi grassi), zuccheri e latticini. Questi alimenti, più di altri, favoriscono la proliferazione dei batteri e peggiorano l’alitosi.

L’alitosi, assieme alla lingua bianca, è spesso provocata anche dal fumo, che causa una secchezza delle fauci a sua volta aggravata dalle sostanze chimiche contenute nelle sigarette. Per i fumatori, la lingua bianca può portare anche alla leucoplachia: in questi casi, la patina bianca si presenta a chiazze e può influire anche sul senso del gusto. Una condizione simile può predisporre al cancro del cavo orale e per questo si consigliano vivamente controlli mirati e molta attenzione alla prevenzione.

Eliminare la patina bianca sulla lingua è benefico per impedire al corpo di riassorbire le tossine che si sono accumulate in questo punto. Potrete provare ad utilizzare rimedi come il nettalingua e l'oil pulling anche ogni mattina per gestire il problema.

Il nettalingua è un piccolo e semplice strumento della tradizione ayurvedica che permette di rimuovere delicatamente la patina sulla lingua. È in acciaio inossidabile o in rame e lo potete trovare in erboristeria o nei negozi di prodotti naturali. Questo raschietto aiuta a rimuovere patina e tossine presenti sulla lingua in pochi secondi. Utilizzatelo al mattino prima di fare colazione e di lavarvi i denti. È importante eliminare le tossine prima che rientrino in circolo.

La pratica dell'oil pulling aiuta a rimuovere i batteri che nel corso della notte si vanno a depositare sulla lingua e sui denti. Il consiglio è di praticare l'oil pulling prima di lavarvi i denti o di usare il nettalingua. Si tratta di fare uno sciacquo profondo della bocca con un cucchiaino di olio di sesamo, olio di cocco o altro olio alimentare. Anche l'olio d'oliva va bene. L'utilizzo dell'olio aiuta a rimuovere le tossine.

Il succo di Aloe Vera può essere utile per il trattamento dei problemi del cavo orale grazie alle sue proprietà antinfiammatorie. Le sue proprietà antimicrobiche inoltre aiutano a contrastare i batteri che causano alito cattivo e patina bianca sulla lingua. Provate ad eseguire degli sciacqui con un cucchiaino di succo di Aloe Vera unito a mezzo bicchiere d'acqua ogni mattina.

La curcuma per le sue proprietà antibatteriche è considerata utile per proteggere il cavo orale e la lingua dalle infezioni. Uno dei rimedi naturali da applicare in caso di patina bianca sulla lingua suggerisce di fare due volte al giorno sciacqui e gargarismi con un bicchiere d'acqua a cui aggiungere mezzo cucchiaino di curcuma in polvere.

Anche il bicarbonato di sodio è considerato un rimedio utile per la salute della lingua e del cavo orale. Il consiglio è di strofinare delicatamente la lingua con lo spazzolino da denti dopo averlo cosparso con un pochino di bicarbonato e di fare degli sciacqui con acqua e bicarbonato due volte al giorno (sciogliete mezzo cucchiaino di bicarbonato in un bicchiere di acqua tiepida).



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NAUSEA

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La nausea è una sensazione di malessere e fastidio allo stomaco che può precedere il vomito.

Le cause scatenanti la nausea sono molte e di origine diversa. Tra quelle gastrointestinali ci sono soprattutto indigestione, gastrite cronica o problemi intestinali, ma anche epatite, cirrosi, calcolosi della cistifellea, patologie del pancreas. Anche il reflusso gastroesofageo si accompagna spesso a un senso di nausea.
Gravidanza, ipoglicemia (abbassamento dei livelli di zuccheri nel sangue), estremo affaticamento e artrosi cervicale sono anch’esse cause abbastanza comuni.
La nausea gravidica, in particolare, è tipica soprattutto dei primi mesi di gestazione ed è principalmente dovuta a fattori di tipo ormonale: all’inizio della gravidanza, infatti, si verifica un brusco aumento di alcuni ormoni (gonadotropina corionica, estrogeni e progesterone), che hanno la capacità di raggiungere e stimolare i centri che controllano il riflesso della nausea e del vomito, posti nell’ipotalamo (una zona del cervello), e il rinencefalo ad essi collegato.
Quest’ultimo è il centro cerebrale che sovraintende alla percezione degli odori: per questo cibi e profumi prima graditi, durante i nove mesi possono diventare talmente insopportabili da scatenare disgusto e rendere inavvicinabile la cucina.
Durante la gestazione può capitare che la nausea torni a manifestarsi anche nell’ultimo mese. Questo avviene in genere per effetto della pressione dell’utero sul diaframma, il muscolo che divide la cavità dell’addome da quella del torace e che, a sua volta, schiaccia lo stomaco.

È facile quindi avere un reflusso acido, una digestione lenta e difficile e la sensazione di sazietà anche dopo un piccolo spuntino. Tutti fattori, insieme al tipico aumento della secrezione di acido cloridrico, che favoriscono la comparsa del sintomo.
Molte donne accusano una spiacevole sensazione di malessere generalizzato che sovente si accompagna alla nausea anche durante la sindrome premestruale, sempre per effetto degli ormoni (estrogeni e progesterone) che regolano il ciclo.
Si può avvertire anche un senso di nausea per un problema di equilibrio, come avviene nella labirintite o durante i viaggi in auto, barca, pullman o aeroplano. Queste forme sono più frequenti nei bambini sopra i tre anni e nelle giovani donne, e sono dette cinetosi o mal di viaggio.
Comunemente detta anche mal di mare, o di aria, la cinetosi è un disturbo di natura neurovegetativa e chi ne è soggetto non sopporta il movimento passivo, in particolare, le accelerazioni e le decelerazioni ai quali è sottoposto durante un viaggio. Il suo senso dell’equilibrio ne risulta così destabilizzato.
Anche chi soffre di emicrania (ancora una volta soprattutto donne) si trova spesso a fare i conti, oltre con il forte dolore tipicamente a un lato del capo, con la nausea che, per altro, è in grado di interferire con l’assunzione dei farmaci necessari contro il mal di testa, rallentando il raggiungimento del sollievo dal dolore.
Episodi di nausea, se associati a un dolore nella regione dello stomaco, possono essere la spia di qualcosa che non funziona a livello del cuore, oppure, se associati a forti sintomi dolorosi all’addome o all’inguine, possono essere il segnale d’inizio di un episodio colico, rispettivamente biliare o renale.
È, inoltre, una compagnia frequente di chi soffre di disturbi alimentari, e di un rapporto alterato nei confronti del cibo, come chi è affetto da anoressia (che rifiuta sistematicamente di mangiare) o da bulimia (mangia in modo incontrollato e si abbuffa fino a che preso dal senso di colpa e dalla nausea può arrivare ad auto-indursi il vomito).
Non bisogna dimenticare che la nausea può rappresentare uno degli effetti collaterali di alcune cure farmacologiche. Ne è un classico esempio quella che accompagna la chemioterapia, ma anche farmaci oppioidi, antidepressivi, anestetici, anticoncezionali orali, alcuni antibiotici e molti altri possono determinare questo malessere.
Infine, ma non ultime, tutte le condizioni di stress possono causare ansia generalizzata e nausea.

In medicina, la nausea può presentarsi durante la chemioterapia e dopo gli interventi chirurgici in anestesia generale. È sintomo comune dei primi mesi della gravidanza; in tal caso una nausea moderata è da considerarsi normale.

La chemioterapia è il trattamento di molte malattie oncologiche e ematologiche. Un effetto indesiderato frequente di molte chemioterapie è la comparsa di nausea e vomito. Tale fenomeno è causato dall'azione che la chemioterapia esercita sulle cellule dello stomaco e dell'intestino che rilasciano sostanze come la serotonina, la sostanza P e la dopamina. Tali sostanze agiscono sia a livello gastrointestinale (serotonina) sia a livello dei centri cerebrali della nausea (dopamina e sostanza P) promuovendo tale effetto collaterale. Esistono tre tipi di nausea legata a chemioterapia che sono: acuta (prime 24 ore dopo la terapia), tardiva (successiva alle prime 24 ore) e anticipatoria (ossia precede la somministrazione della chemioterapia stessa). L'intensità della nausea e la sua frequenza dipendono da molti aspetti come: il tipo di chemioterapici utilizzati (esempio il cisplatino promuove facilmente nausea e vomito), ma anche dalle caratteristiche dei pazienti (esempio le donne sono più soggette degli uomini, i non fumatori sono più soggetti dei fumatori). Attualmente esistono farmaci usati per prevenire la nausea indotta dalla chemioterapia e sono principalmente inibitori dell'azione della serotonina o inibitori dell'azione della sostanza P. Tali farmaci usati singolarmente o più spesso in associazione tra loro (un inibitore della serotonina più un inibitore della sostanza P) in combinazione con corticosteroidi (a formare una tripletta di farmaci) sono molto utili nel controllo della nausea causata dalla chemioterapia. Tali farmaci anche combinati in triplette mostrano la loro massima efficacia quando sono somministrati per prevenire l'insorgenza di nausea. Altri farmaci efficaci sono aloperidolo, metoclopramide, olanzapina, scopolamina transdermica, i corticosteroidi e le benzodiazepine (in particolare il lorazepam).

Sebbene nausea e vomito di breve durata sono generalmente non pericolosi, possono indicare una malattia più seria, come la celiachia. Quando il vomito è prolungato, può esserci disidratazione e/o un pericoloso squilibrio elettrolitico.



Una terapia sintomatica contro la nausea può includere piccole porzioni di cibo solido. Ciò però non è semplice, dato che la nausea è quasi sempre associata a perdita d'appetito. Se il paziente è disidratato può essere necessaria la reidratazione con soluzioni elettrolitiche per via endovenosa o via orale. Se la causa è il mal di mare il sedersi in un ambiente stabile può aiutare.

Esistono molti tipi di medicinali contro nausea e vomito, e la ricerca continua per produrre farmaci ancor più efficaci. 

Lo zenzero e la marijuana sono usate da secoli come rimedi naturali per la nausea, e studi recenti hanno validato ciò. Un rimedio per la nausea,inoltre,sono le bevande gassate.

La menta piperita ha invece evidenziato un effetto comparabile a quello del placebo.

Una terapia sintomatica contro la nausea può includere piccole porzioni di cibo solido. E' bene bere, per assicurarsi la necessaria idratazione. Meglio prediligere frutta (ottime le banane) e verdura, mentre andrebbero eliminati i fritti, i cibi grassi, piccanti e speziati che acuiscono la nausea. 

Alcuni tipi di caramelle alla menta sono molto utili per curare la nausea, bisogna lasciarle sciogliere in bocca piuttosto che masticarle (fate attenzione che non contengano aspartame o zuccheri sospetti). 

Vitamina B6, C e K sono utili per attenuare la sensazione di nausea. Dateci dentro quindi con peperoni dolci, cavolo a foglia, cime di rape, broccoli, spinaci.

Quando la nausea è dovuta alla gravidanza, può essere utile l'assunzione dell'umeboshi, prugne essiccate giapponesi ricche di acidi organici e fortemente alcalinizzanti. 

In caso di nausea è molto efficace lo zenzero. Anche la menta piperita è usata come attenuante dei disturbi legati alla sensazione di nausea. Un infuso di camomilla può essere utile per attutire la sensazione di nausea.

Aspen (Populus tremula) è il fiore di Bach indicato per chi convive con uno stato di paura costante e con una sensazione fisica di nausea. 

La digitopressione della tradizione orientale fornisce una delle soluzioni più conosciute per ridurre la sensazione della nausea non richiede niente di più che stare seduti, e strofinare, facendo pressione, il punto dove è concentrato il nervo che produce la sensazione della nausea, questo punto si trova proprio tra l'indice e il pollice, applicando una leggera pressione si proverà un immediato sollievo, è molto rilassante anche quando non si ha la nausea. 

A questo trattamento si può associare l'agopuntura: la Medicina Tradizionale Cinese consiglia determinati punti per trattare la nausea che viene interpretata come Qi Ni (energia controcorrente) di Stomaco.

Anche l'acupressione, che si basa sui principi della medicina tradizionale cinese, può essere un buon rimedio contro la nausea di varia natura.

Può essere utile portare con sé una una bottiglia di olio essenziale di zenzero e in caso di nausea ad esempio da gravidanza, se ne versa qualche goccia in un fazzoletto e se ne respira la fragranza. 

Nei momenti di attacco acuto è bene lasciar andare i muscoli che si contraggono durante i conati provocati dalla nausea; tecniche come il training autogeno e la tecnica delle immagini guidate possono aiutare ad adottare queste forme di controllo consapevole.
Un bagno d'acqua calda è molto efficace per consentire un momento di relax e una tregua dalla nausea, attenzione alla pressione, che non scenda troppo.



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VARICOCELE

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Il varicocele in passato veniva diagnosticato massicciamente in Italia durante la visita medica per l'accesso al servizio militare obbligatorio.

I testicoli ricevono il sangue dall'arteria genitale (arteria testicolare) attraverso il canale inguinale che mette in comunicazione lo scroto con l'addome.

Le vene testicolari (superficiali e profonde) si riuniscono e dopo aver raccolto le vene dell'epididimo, risalgono ed entrano a far parte del funicolo spermatico dove costituiscono il plesso pampiniforme. Da questo si origina la vena testicolare, che a destra sbocca nella vena cava inferiore, a sinistra invece giunge alla vena renale sinistra.

Tali vene, nell'uomo e più raramente nella donna, possono diventare incontinenti e dilatarsi impedendo così il deflusso di sangue venoso dal testicolo verso la parte alta del corpo. Si crea quindi una condizione di reflusso e stasi di sangue verso il testicolo.

Ciò si manifesta in particolar modo a carico del testicolo sinistro (95%) e raramente nel testicolo destro (5%) a causa delle differenti caratteristiche anatomiche tra le due vie vascolari. La vena spermatica sinistra, infatti, è tributaria della vena renale che ha basso flusso rispetto alla vena cava nella quale refluisce la vena spermatica destra, questo perché la vena testicolare sinistra sfocia nella vena renale perpendicolarmente, a differenza della testicolare destra che sfocia nella vena cava ad angolo.

Talvolta il varicocele può coinvolgere entrambi i testicoli e allora si parla di varicocele bilaterale.

Il varicocele non influisce sul meccanismo dell'erezione. Tuttavia, il dolore provocato dalla pressione esercitata dal sangue nelle vene dilatate attorno al testicolo, può inibire la risposta erettile a livello psicologico.

È dibattuta fra gli endocrinologi la correlazione fra varicocele, soprattutto di primo e secondo grado, e sub-fertilità. Dato che il reflusso di sangue aumenta la pressione sulle pareti delle vene dilatate e quindi anche la loro temperatura, l'ipotesi sottostante è che durata e ampiezza di questa variazione siano sufficienti ad alterare i valori termici dell'intera zona circostante il testicolo, e a determinare un forte rischio di deterioramento di numero, forma e motilità degli spermatozoi. Il solo aumento di pressione è anch'esso correlabile all'infertilità perché causa ipossia, stress ossidativo e una concentrazione di testosterone più bassa nel testicolo.
Per questi motivi, dopo la diagnosi di varicocele, viene effettuato uno spermiogramma, per valutare quantità e qualità degli spermatozoi nel liquido seminale.

Statisticamente gli uomini con varicocele hanno dei livelli di testosterone leggermente minori rispetto alla norma, inoltre gli individui con questa patologia hanno livelli minori di LH, maggiori di FSH e progesterone. È stata anche rilevata una minore attività di una liasi.

Più raramente tale patologia, determinata da una incontinenza congenita delle vene ovariche e definita Varicocele pelvico, può essere causa di dolore pelvico cronico nel sesso femminile.



Insorge solitamente tra i 15 e 25 anni, eccezionalmente prima, assai di rado nella vecchiaia. .

La patogenesi del Varicocele non è chiaramente conosciuta; il fatto più probabile è che sia determinato da una congenita debolezza delle pareti venose associata ad una incontinenza delle valvole ; la pressione del sangue determinata dalla posizione eretta a lungo andare determina la dilatazione delle vene.

Molte persone ammalate di varicocele non accusano nessun sintomo (molto spesso si accorgono di averlo perché non riescono ad avere figli); questo dipende spesso dalle sue dimensioni.

Il dolore associato al varicocele è dovuto all'eccessiva pressione del sangue all'interno delle vene dilatate. Tale aumento pressorio così come il dolore aumentano quando si sta in piedi per lunghi peiodi di tempo, nell'attività sportiva o sollevando pesi. Il varicocele pelvico femminile è spesso causa di una sintomatologia dolorosa cronica nella donna che si può accentuare durante il ciclo mestruale e dopo i rapporti sessuali; è comune che la diagnosi in questi casi venga posta tardivamente per la relativa rarità della patologia che, per tale motivo, viene sospettata solo dopo che altre patologie femminili più frequenti sono state escluse.

Generalmente la diagnosi di Varicocele non è difficile. Il Medico di base facilmente diagnostica il Varicocele semplicemente con la visita. E' comunque indispensabile una corretta e approfondita valutazione delle cause e dell'entità per le quali non è sufficiente la sola visita clinica. Un esame del Liquido Seminale e un Eco-Doppler sono necessari. L'Eco-Doppler è un esame non-invasivo che impega gli ultrasuoni molto simile all'Ecografia. L'Eco-Doppler viene solitamente eseguito con il paziente in piedi in modo tale che le vene ripiene di sangue sono più agevolmente visibili. L'intero esame non richiede più di 20 minuti. Tali esami, associati anche alla Ecografia transvaginale e alla TAC e/o RM, permettono generalmente di effettuare la diagnosi anche del Varicocele pelvico femminile che, tuttavia, viene posta tardivamente perché tale patologia non si manifesta esternamente e perché essendo più rara viene sospettata dal medico meno frequentemente.

Il trattamento prevede la legatura chirurgica o la sclerotizzazione delle vene spermatiche. Nel primo caso si pratica, in anestesia generale, un’incisione a livello inguinale e successivamente si chiudono i rami venosi dilatati. L’intervento non richiede ospedalizzazione, è sufficiente un day hospital e dopo un paio di giorni il paziente può riprendere l’attività lavorativa. Lo stesso tipo di intervento si può anche realizzare in laparoscopia.
La scleroembolizzazione invece è una tecnica di radiologia interventistica che consiste nell’iniettare nelle vene dilatate un liquido che le occlude. A differenza del trattamento chirurgico si pratica in anestesia locale, ma i risultati di entrambe le tecniche sono sovrapponibili.
Le recidive si verificano soprattutto nei gradi più avanzati di varicocele e si manifestano nel 3-5 per cento dei casi. Va comunque sottolineata l’importanza di un trattamento precoce, anche perché le possibilità di recuperare una piena fertilità si riducono con il progredire dell’età.
Chi è colpito da varicocele soffre spesso anche di altri disturbi legati alla circolazione venosa, come ad esempio le varici o le emorroidi, che hanno una predisposizione familiare che può essere trasmessa da entrambi i genitori. Dal punto di vista costituzionale, il varicocele colpisce in prevalenza i soggetti longilinei.
L’attività fisica, anche se intensa, non è di per sé causa di varicocele; tuttavia intensi e prolungati aumenti di pressione addominale, come quelli che si accompagnano ad alcune discipline sportive, possono accentuare una condizione di varicocele già presente.


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LA PROSTATA

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Stanchezza cronica, dolore (soprattutto alle ossa), debolezza, disturbi urinari, difficoltà a dormire o a svolgere normali attività quotidiane, come camminare o salire le scale. Sono i campanelli d’allarme che dovrebbero mettere in allerta gli uomini con un tumore alla prostata, perché la presenza di questi sintomi potrebbe indicare che la malattia sta peggiorando. Invece, come mette in evidenza un sondaggio presentato durante il Congresso di Oncologia Europeo (European Cancer Congress tenutosi a Vienna), circa la metà dei pazienti che convive con una neoplasia prostatica in fase avanzata ignora il possibile significato di questi indizi, quasi uno su tre non riconosce il fatto che il dolore potrebbe essere legato al cancro e, di conseguenza, spesso non ne parla con un medico.
«La sopravvivenza dei malati è ottima - spiega un urologo -: attualmente a 5 anni dalla diagnosi è vivo oltre il 90 per cento dei pazienti, e questa percentuale è in costante e sensibile aumento. Grazie alla diagnosi precoce e a nuove terapie sempre più efficaci, un numero crescente di persone riesce a convivere con la neoplasia per anni, persino per decenni. Ma è fondamentale che gli uomini riconoscano i sintomi della malattia che avanza e parlino subito con l’oncologo, l’urologo o il radioterapista che li ha in cura, in modo da poter iniziare subito la terapia più efficace nel loro caso con due scopi: bloccare l’evoluzione del cancro e mantenere una buona qualità di vita, senza dolore o altri disturbi, con vantaggi anche sull’allungamento della sopravvivenza».

«Il tumore della prostata può non essere sintomatico nelle fasi iniziali, ma avvisaglie come dolore grave o inspiegabile, difficoltà nel camminare, nel salire le scale o ad addormentarsi e perdita del controllo vescicale (problemi ad urinare, frequente necessità di fare pipì o sangue nelle urine) possono manifestarsi quando la malattia progredisce - aggiunge l'urologo -. Questi disturbi dovrebbero indurre gli uomini a rivolgersi al proprio medico senza perdere tempo. Lo stadio del tumore prostatico è uno dei più importanti fattori nel determinare le opzioni di trattamento e le prospettive di recupero. La diagnosi precoce dei sintomi può non solo rallentare la progressione della malattia, ma anche potenzialmente migliorare la qualità di vita dei pazienti e avere un impatto positivo sui loro cari». I familiari dei pazienti con tumore prostatico avanzato possono essere molto colpiti dalla malattia, ma sono anche in grado di giocare un ruolo importante nel migliorare il decorso della neoplasia.

Prevenire il tumore della prostata (la neoplasia più frequente tra gli uomini: 35mila le diagnosi effettuate nel 2015) facendo sesso. Si potrebbe riassumere in questo modo l’indicazione che emerge da una ricerca appena pubblicata sulla rivista «European Urology». Lo studio, condotto da sei ricercatori dell’Università di Harvard, ha evidenziato l’effetto benefico dell’eiaculazione - ovvero l’emissione di liquido seminale attraverso l’uretra - nella prevenzione del carcinoma della prostata. La notizia va però interpretata. La fonte che l’ha riportata è autorevole, ma il riscontro oggettivo è ancora privo di una spiegazione scientifica.
 
Potranno essere felici gli uomini, a seguito della scoperta ottenuta dopo aver portato a termine uno studio durato diciotto anni e condotto su 31925 uomini. Il lavoro rappresenta la trascrizione di una ricerca presentata durante l’ultimo congresso annuale della Società americana di urologia, che già al suo «debutto» acquisì una grande eco. S’è trattato di un lavoro prospettico, iniziato nel 1992 e concluso nel 2010 arruolando uomini che (in media) avevano 59 anni. Durante il lungo follow-up, 3839 persone si sono ammalate di un tumore alla prostata, rivelatosi poi letale in 384 casi. All’inizio dello studio, però, tutti i soggetti coinvolti erano stati invitati a compilare un questionario in cui indicare la frequenza media mensile delle eiaculazioni registrate in tre periodi della propria vita: tra i 20 e i 29 anni, tra i 40 e i 49 anni e nei dodici mesi precedenti l’avvio della ricerca.
 
Partendo da questi dati, e incrociandoli con i riscontri epidemiologici ottenuti nel corso dell’osservazione, i ricercatori hanno potuto ottenere quelle che hanno definito «le prove più forti a sostegno del ruolo preventivo che l’eiaculazione gioca nei confronti del tumore alla prostata».

Janet Stanford, ricercatore del Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle, non coinvolto nello studio, ha però smorzato i facili entusiasmi. «Associazione non vuol dire causalità: occorre essere cauti circa l’interpretazione di questi dati». Quali sono state le evidenze? Il rischio di ammalarsi di tumore alla prostata è risultato più basso del venti per cento tra gli uomini eiaculavano con «alta frequenza» (21 volte al mese). Ma anche un minor numero di occasioni ha avuto la sua efficacia.
 
Non è la prima volta che la frequenza dell’attività sessuale viene correlata a un minor rischio di ammalarsi di tumore alla prostata. In effetti già altre ricerche avevano portato a galla il beneficio.

Ma perché fare sesso con regolarità promuoverebbe la salute della ghiandola dell’apparato genitale maschile? Frequenti eiaculazioni - è l’ipotesi più accreditata all’interno della comunità scientifica - ridurrebbero la concentrazione di sostanze potenzialmente dannose e cancerogene presenti nel fluido prostatico. Al contrario, l’astinenza prolungata sarebbe responsabile del «ristagno» delle secrezioni nell’organo: da qui un rischio più alto di infezioni, considerate un terreno fertile per l’alterazione dei meccanismi di replicazione alla base della neoplasia.
Le raccomandazioni per mantenere la prostata in salute riguardano innanzitutto lo stile di vita. Senza alcol e fumo, limitando il consumo di alimenti ricchi di grassi saturi ed eccessivamente speziati, bevendo almeno due litri di acqua al giorno e ritagliandosi il tempo per l’attività fisica (almeno un paio di volte alla settimana), si può ridurre il rischio di ammalarsi. Prima si comincia a seguire questi consigli e meglio è, ma per imboccare la via della prevenzione non è mai troppo tardi.

La prostata dell'uomo è una ghiandola fibromuscolare di forma variabile, nel soggetto normale è piramidale, simile ad una castagna, ma talvolta assume una forma a mezzaluna o in caso di ipertrofia a ciambella. Ha un diametro trasversale medio di 4 cm alla base, verticalmente è lunga 3 cm e antero-posteriormente circa 2 cm per un peso di 10-20 g nei soggetti normali, che tuttavia può aumentare di svariate volte in caso di IPB (ipertrofia prostatica benigna). Possiede una base, un apice, una faccia anteriore, una faccia posteriore e due facce infero-laterali.

La base è appiattita e superiormente in rapporto con il collo della vescica, mentre l'apice è la porzione inferiore della ghiandola e segna il passaggio dalla porzione prostatica a quella membranosa dell'uretra. La faccia anteriore è convessa e collegata con la sinfisi pubica (che gli è anteriore) dai legamenti puboprostatici, ma la ghiandola ne è separata dal plesso venoso del Santorini, posto all'interno della fascia endopelvica, e da uno strato di tessuto connettivo fibroadiposo lassamente adeso alla ghiandola. Dalla faccia anteriore, antero-superiormente rispetto all'apice, e tra il terzo anteriore e quello intermedio della ghiandola, emerge l'uretra. Nella prostata la porzione anteriore è generalmente povera di tessuto ghiandolare e costituita perlopiù da tessuto fibromuscolare.

La faccia anteriore e le facce infero-laterali sono ricoperte rispettivamente dalla fascia endopelvica e dalla fascia prostatica laterale su entrambi i lati, che ne rappresenta la continuazione laterale e si continua poi posteriormente andando a costituire la fascia rettale laterale che ricopre le porzioni laterali del retto. Le facce infero-laterali sono in rapporto con il muscolo elevatore dell'ano e i muscoli laterali della pelvi, da cui sono separati da un sottile strato di tessuto connettivo.



La faccia posteriore della prostata è trasversalmente piatta o concava e convessa verticalmente ed è separata dal retto dalla fascia del Denonvilliers, anch'essa continua con le fasce prostatiche laterali, che vi aderisce nella porzione centrale mentre racchiude due fasci neurovascolari postero-lateralmente alla ghiandola. Posteriormente alla fascia del Denonvilliers la prostata è comunque separata dal retto dal tessuto adiposo prerettale contenuto nell'omonimo spazio fasciale.
Lo spazio delimitato dalla fascia del Denonvilliers ha come "soffitto" il peritoneo che ricopre la base della vescica. I due condotti eiaculatori entrano postero-medialmente alla faccia posteriore presso due depressioni e poco al di sotto di queste vi è un lieve solco mediano che originariamente divideva la prostata nei lobi laterali destro e sinistro. La prostata è composta anche da tessuto muscolare. Lo sfintere uretrale interno è costituito da fasci circolari di muscolatura liscia posti all'interno della ghiandola, presso la sua base, che si fondono con la muscolatura del collo della vescica. Davanti a questo strato del muscolo scheletrico discende e si fonde con lo sfintere uretrale esterno, posto attorno all'apice della prostata nella loggia perineale profonda.

Questa muscolatura è ancorata tramite fibre collagene agli strati fasciali attorno alla prostata che ne costituiscono la sua "capsula" e allo stesso tessuto fibromuscolare della prostata. Posteriormente alla prostata decorre il muscolo rettouretrale, che origina dalla parete del retto (strato longitudinale esterno) tramite due fasci muscolari che si uniscono per poi andarsi ad inserire nel centro tendineo del perineo. Il tessuto ghiandolare prostatico può essere diviso in tre zone cui si aggiunge, a completare l'organo, lo stroma fibromuscolare anteriore.

La zona transizionale è una zona rotondeggiante, costituisce appena il 5% del volume della ghiandola ed avvolge l'uretra preprostatica. È completamente interna alla ghiandola, anteriormente è ricoperta dallo stroma fibromuscolare anteriore, posteriormente è in rapporto con la zona centrale, lateralmente ed inferiormente con la zona periferica ed è appena anteriore ai condotti eiaculatori che si immettono nell'uretra prostatica.
La zona centrale è pensabile come un tronco di cono interno alla ghiandola, ne costituisce il 25% del volume. Anteriormente è in rapporto con la zona transizionale, posteriormente e lateralmente con la zona periferica. È attraversata per tutta la sua lunghezza dai condotti eiaculatori (che decorrono solo in questa porzione del tessuto ghiandolare della prostata) e il suo apice determina la sporgenza del verumontanum. In questa zona, appena sopra la zona transizionale e attorno all'uretra preprostatica vi sono ghiandole mucose semplici non assimilabili a quelle prostatiche volte alla produzione di liquido seminale.
La zona periferica è la porzione più grande del tessuto ghiandolare, anch'essa a tronco di cono o a coppa, ne costituisce il 70% del volume. Racchiude in parte l'uretra preprostatica e l'uretra prostatica, contiene la zona transizionale, è in rapporto anteriormente e medialmente con la zona centrale e anteriormente con lo stroma fibromuscolare anteriore.
Lo stroma fibromuscolare anteriore costituisce gran parte della porzione anteriore (e della faccia anteriore) della prostata, racchiude la parete antero-superiore dell'uretra preprostatica (la posteriore è compresa nella zona centrale e transizionale, l'antero-inferiore nella transizionale). La sua forma è assimilabile ad un cuneo o ad un cono rovesciato.
La prostata è irrorata da rami delle arterie pudenda interna, vescicale inferiore e dall'arteria rettale mediale che sono rami dell'arteria iliaca interna. I rami delle arterie principali della prostata decorrono nel fascio neuromuscolare postero-laterale alla ghiandola e da lì vi si distribuiscono sulla faccia posteriore. L'arteria vescicale inferiore irrora generalmente con due rami il collo della vescica e la base della prostata, inviando anche rami anteriormente alla ghiandola. I vasi posteriori decorrono dietro la prostata emettendo rami che vi entrano perpendicolarmente.

Le vene si distribuiscono alla prostata mediante un plesso venoso anteriore (plesso del Santorini) e tramite vene che decorrono nel fascio neurovascolare postero-laterale alla ghiandola. Il plesso del Santorini è situato subito all'interno della fascia endopelvica, dietro la sinfisi pubica, e contiene le vene di maggior calibro in cui drena il sangue della prostata, mentre le vene dei fasci posteriori sono più piccole. Le vene prostatiche e vescicali anteriori drenano nel plesso vescicale che ha nella vena pudenda interna, e queste a loro volta nella vena iliaca interna.

I vasi linfatici della prostata drenano nei linfonodi iliaci interni (vasi linfatici della faccia anteriore) ed esterni (vasi linfatici della faccia posteriore), sacrali ed otturatori.

La prostata è innervata dal plesso ipogastrico inferiore ed i suoi rami creano un ulteriore plesso arcuato sulla ghiandola. Buona parte dei nervi decorrono lungo i fasci neurovascolari postero-laterali accollati alla ghiandola. Lo sfintere uretrale esterno è molto innervato, così come la capsula, scarse invece le fibre nervose sulla faccia anteriore e ancora di più nella zona periferica. I nervi perforano la capsula e si distribuiscono nella tonaca muscolare, nello stroma e lungo le arterie. Lo sfintere vescicale esterno è innervato dal nervo pudendo che emette due rami che si dirigono postero-medialmente per innervare la giunzione prostatovescicale.

Il tessuto ghiandolare della prostata è costituito da un numero variabile da 30 a 50 ghiandole tubuloalveolari ramificate, spesso chiamate anche ghiandole otricolari, immerse in uno stroma fibromuscolare. Lo stroma è più abbondante nella parte anteriore della prostata dove forma lo stroma fibromuscolare anteriore, privo di ghiandole. Esso inoltre costituisce una sottile capsula per l'organo da cui si dipartono spessi setti incompleti che nella vita fetale lo dividono in cinque lobi, nell'adulto tuttavia i lobi non sono più chiaramente distinguibili. Le ghiandole otricolari sono invece poste, come detto nelle tre zone in cui è suddiviso il tessuto ghiandolare prostatico.

Ciascuna ghiandola otricolare è costituita da numerosi acini provvisti di papille, che riversano il loro secreto in piccoli condotti che si uniscono a formare un dotto per ciascuna ghiandola, per un totale di 12-20 dotti. Ognuno di essi decorre all'interno del parenchima sino a raggiungere l'uretra prostatica dove sbocca lateralmente al collicolo seminale. Le due depressioni che fiancheggiano il collicolo seminale nell'uretra prostatica sono dette seni prostatici ed è qui che si aprono tutti i dotti della ghiandola. I dotti variano in lunghezza a seconda della collocazione delle ghiandole, i più lunghi sono quelli posti nella zona periferica che possiede anche le ghiandole dalla struttura più complessa, i più corti nella zona transizionale che possiede ghiandole semplici e ghiandole mucose. Le ghiandole mucose sono più facilmente riscontrabili in soggetti giovani, dato che tendono a scomparire con l'età.

Gli acini sono costituiti da epitelio cilindrico, semplice o pseudostratificato con una certa variabilità, sono avvolti da un plesso di capillari ed è di frequente riscontro trovarvi i corpi amilacei, aggregati di colloide. Le cellule che compongono gli acini hanno grossi nuclei basali rotondi e un citoplasma debolmente colorabile in EE, sono spesso riscontrabili vescicole secretorie nella porzione apicale. Inframmezzate alle cellule secernenti sono state individuate cellule neuroendocrine che contengono enolasi neurone-specifica, cromogranina e serotonina e la cui funzione è sconosciuta. Alla base delle ghiandole sono inoltre riscontrabili alcune cellule epiteliali piatte che costituiscono gli elementi staminali della prostata. I piccoli dotti che si dipartono dagli acini sono rivestiti da un singolo strato di cellule epiteliali, mentre i dotti prostatici in cui confluiscono possiedono una parete formata da un doppio strato di cellule, costituito nella porzione basale da cellule cubiche, in quella luminale da cellule cilindriche.




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PAS

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La PAS è una sindrome assai complessa e ambigua, per cui è difficile da riconoscere, considerando che i professionisti hanno soltanto l’osservazione clinica ad aiutarli, senza l’utilizzo di alcuno strumento specifico.

Gardner, psichiatra statunitense e teorico della Sindrome di Alienazione Parentale ha identificato otto criteri fondamentali per poter fare diagnosi di effettiva alienazione parentale. Questi bambini tendono a sentirsi responsabili della felicità dei genitori e tutto ciò interferisce con lo sviluppo del bambino stesso e la capacità di instaurare buone relazioni sociali con i propri coetanei. Per questi motivi è importante identificare queste dinamiche il prima possibile e mettere in atto le dovute strategie per cercare di porvi rimedio.

Si tratta di un disturbo della relazione all’interno del sistema familiare di appartenenza del minore, una sorta di distorsione dei sentimenti del figlio nei confronti del genitore bersaglio che vengono “manomessi” dal genitore alienante, convincendolo che l’ex-coniuge non è affidabile, disponibile e/o accogliente.
Il bambino quindi si ritrova a dover elaborare due messaggi del genitore affidatario: l’inaffidabilità e l’indisponibilità del genitore alienato e la possibile perdita della relazione col genitore alienante se deciderà di mantenere un rapporto d’affetto con l’altro.

In situazioni di conflitto coniugale si sa, chi soffre di più sono i figli che vengono sballottati tra un genitore all’altro e che, più spesso di quanto vorremmo, non vengono salvaguardati dalla guerra che si fanno mamma e papà. Nel caso in cui la separazione tra i coniugi sia particolarmente conflittuale, può accadere che il genitore affidatario, volontariamente o inconsapevolmente, dia avvio a una sorta di “lavaggio del cervello” volto a far sì che il figlio metta in atto una campagna di denigrazione ingiustificata nei confronti dell’altro genitore e, nei casi più gravi, sfociando in una vera e propria accusa di abuso sessuale. Lo scopo ultimo della PAS, da parte del genitore alienante, è l’interruzione immediata delle visite dell’ex-coniuge e l’ottenimento dell’affidamento esclusivo.

Il bambino affetto da PAS idealizza in modo assoluto il genitore affidatario e si schiera completamente dalla sua parte, confermando ogni suo ipotetico sospetto o assecondando ogni suo dubbio, genuino o meno; per contro, il rifiuto totale del genitore bersaglio è motivato da razionalizzazioni deboli o addirittura assurde, utilizzando a volte il linguaggio del genitore alienante.

Il comportamento del bambino, rispetto alla richiesta di coalizione da parte di un genitore, dipende dalla sua età: prima dei nove anni tenderà a sentirsi legato ad un conflitto di lealtà verso entrambi i genitori; dai nove ai dodici anni cercherà invece di allearsi con un genitore a discapito dell’altro, probabilmente come tentativo di risoluzione del conflitto, oppure per evitare che egli venga frapposto tra la coppia genitoriale, senza però riuscirci. Comunque sia, a lungo termine, i costi per il bambino sono elevati e potrebbero riguardare problemi d’identità e nelle relazioni affettive.

Uno studio italiano di Lavadera et al. (2012) dell’Università La Sapienza di Roma, ha cercato di evidenziare quali sono le caratteristiche dei genitori e dei bambini in cui si sviluppano fenomeni di alienazione parentale. Lo studio si caratterizza di un gruppo sperimentale di 20 bambini di età media di 11 anni, figli di genitori separati, nei quali è stato osservato un marcato fenomeno di alienazione parentale (diagnosticato in base agli otto criteri di Gardner) e da un gruppo di controllo di 23 bambini della medesima età, anch’essi figli di coppie separate nei quali però non si è osservata alienazione.

Le caratteristiche dei bambini che sono state indagate:
Presenza nel bambino di un “falso sè” ovvero un sè adattivo ma non autentico, basato sulla soddisfazione dei desideri altrui; generalmente viene messo in atto per proteggere il sè reale da un ambiente esterno che il bambino percepisce come troppo intrusivo.
Comportamenti manipolatori: ovvero la tendenza a sviluppare comportamenti e relazioni motivate primariamente dall’interesse personale, a discapito dell’autenticità della relazione.
Perdita del rispetto per l’autorità genitoriale.

Triangolazione: si tratta di un’instabile coalizione che si sviluppa quando uno o entrambi i genitori in conflitto provano ad assicurarsi il supporto del figlio, cercando quindi un alleato nella lotta contro l’altro partner.
Distorsione della realtà familiare: rappresentazione mentale e interpretazione degli eventi familiari da una prospettiva soggettiva. In questo caso il bambino tende ad interpretare la realtà secondo il punto di vista del genitore alleato o comunque il punto di vista del figlio è fortemente influenzato dal conflitto di coppia dei genitori.
Affettività ambivalente: ovvero lo sviluppo di un’affettività instabile che tende ad essere superficiale e manipolativa piuttosto che basata su una reale relazione con gli altri.



Il numero di genitori “alienatori” era equamente diviso tra padri e madri; la maggior parte di questi genitori aveva la custodia del figlio al momento della valutazione psicologica forense e ha vissuto con il bambino sin dai primi tempi del divorzio. Quello che emerge sono differenze psicologiche tra il gruppo di genitori con figli aventi sindrome di alienazione parentale (che comprende sia il genitore alienato sia quello alienatore) e il gruppo di controllo (genitori separati i cui figli non avevano alcuna alienazione parentale). In particolare, le madri appartenenti al gruppo con alienazione parentale tenderebbero ad essere più insicure di quelle del gruppo di controllo (indipendentemente dal fatto che esse siano genitore alienato o alienatore).  La maggior parte dei padri del gruppo con alienazione parentale presentano marcati tratti di rigidità comportamentale, atteggiamenti eccessivamente restrittivi nei confronti dei figli ed hanno difficoltà nell’esprimere gli affetti. Queste caratteristiche sembrano presenti sia nei padri alienatori sia in quelli alienati, anche se la difficoltà nel manifestare gli stati d’animo e di entrare in empatia con i figli sembra più frequente nei padri alienati.

Per quanto riguarda invece i figli appartenenti al gruppo con alienazione parentale sono state identificate alcune caratteristiche psicologiche, che li differenziano dai bambini del gruppo di controllo (ovvero bambini figli di genitori separati che non presentano alienazione parentale). I ragazzini coinvolti in fenomeni di alienazione parentale tendono a sviluppare un falso sé molto più frequentemente del gruppo di controllo; tendono inoltre a sminuire più frequentemente l’autorità genitoriale; manifestano più frequentemente atteggiamenti manipolatori e hanno una visione della realtà familiare maggiormente distorta rispetto al gruppo di controllo. Questi bambini non si sentono liberi di esprimere emozioni e affetti nei confronti dei propri familiari, generalmente nei confronti del genitore alienato, proprio per un patto di fedeltà che hanno sviluppato nei confronti dell’altro genitore; in questi casi, l’alienazione parentale e quindi l’allontanamento di quel genitore da parte del bambino, sarebbe la soluzione che esso si crea per evitare di affrontare questo intollerabile conflitto di fedeltà.

L’alienazione parentale sembra avere effetti anche a lungo termine sull’equilibrio psicologico dei figli; crescendo questi bambini tendono a sviluppare un forte senso di perdita nei confronti del genitore che hanno allontanato, tutto ciò associato ad una minore autostima, senso di colpa e difficoltà nello sviluppo dell’identità personale.

Per tutti questi motivi è molto importante che lo psicologo forense, quando viene convocato dal giudice per valutare le capacità genitoriali di partners in fase di separazione giudiziale, abbia presente quali sono le caratteristiche dell’alienazione parentale e agisca cercando di ridurre il conflitto. Indubbiamente l’affido condiviso, se applicato sin dall’inizio della separazione, e una maggiore attenzione al legame genitore-figlio riducono il rischio di sviluppo di alienazione parentale.

L'Italia non ha alcuna una legislazione in materia di “alienazione genitoriale”.

Sull'argomento la Suprema Corte di Cassazione italiana s'è pronunciata in due casi: in un caso riconoscendo la sindrome di alienazione genitoriale (P.A.S.) come priva di fondamento scientifico, in un altro caso, un padre è stato condannato in sede penale per aver «volutamente e coscientemente messo in atto strategie e comportamenti tali da annullare nei bambini ogni possibilità di un rapporto con la madre»; non si hanno ad oggi notizie di condanne analoghe a carico di madri.

Le proposte di introduzione sono state e sono tuttora causa di dura controversia tra opposte opinioni; la principale fonte di critica a tali riforme risiede nel fatto che, attualmente, come evidenziato anche in un rapporto del 2012 dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, non si può porre il concetto di “bigenitorialità” in caso di coppie separate se prima non vengono garantite pari condizioni economiche e sociali a entrambi i genitori, dei quali la madre è spesso svantaggiata e soggetta a mobbing genitoriale e, quindi, spesso inabile a prendersi cura dei figli anche qualora le venisse riconosciuto il diritto da un tribunale.

Le teorie e i risultati delle ricerche di Gardner sull'argomento della sindrome da alienazione genitoriale sono oggetto di critica sia dal punto di vista legale sia sul piano strettamente clinico, in ragione dell'asserita mancanza di validità e affidabilità scientifica.

In un articolo dell'autunno 2001 a firma di Carol Bruch, docente di diritto presso la facoltà di Legge dell'Università della California a Davis, la PAS, «come è stata sviluppata e descritta da Richard Gardner» viene definita «senza logica né base scientifica»; nel 2003, la National District Attorneys Association (Associazione Nazionale dei Procuratori Distrettuali, l'equivalente del pubblico ministero nell'ordinamento giuridico italiano), a firma di Erika R. Ragland e Hope Fields, pubblicò una informativa ai colleghi su come affrontare giuridicamente le questioni legate alla PAS; nella prima parte il nocciolo della trattazione riguarda il fatto che la PAS è una teoria non verificata la quale può comportare conseguenze a lungo termine sui bambini che cercano giustizia e protezione in tribunale, nella seconda parte, più orientata alla procedura in giudizio, si afferma che la PAS è una teoria senza prove in grado di minacciare l'integrità del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittime di abusi.

Da una ricerca compiuta in Spagna nel 2008, dai clinici Antonio Escudero, Lola Aguilar Redo e Julia de la Cruz Leiva, allo scopo di fare il punto sulle conoscenze scientifiche della PAS, è emerso che sull'argomento esiste uno scarsissimo numero di lavori scientifici; da qui la conclusione della mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS, intesa « solo come un costrutto di natura argomentativa elaborato attraverso fallacie quali pensiero circolare, ragionamento per analogia, ricorso al principio di autorità, intendendo come tale il creatore del concetto stesso di PAS». Ancora in Spagna, nel 2009 fu pubblicato un testo scritto dalla psicologa Consuelo Barea in collaborazione con la sua collega argentina Sonia Vaccaro; nel libro, El pretendido Síndrome de Alienación Parental ? un instrumento que perpetúa el maltrato y la violencia (pubblicato in Italia nel 2011 con il titolo PAS. Presunta Sindrome di Alienazione Genitoriale), si sostiene che la PAS è un «costrutto pseudo-scientifico» che, utilizzato in ambito giudiziario, genera «situazioni di alto rischio per i minori e provoca un'involuzione nei diritti umani di bambine e bambini e delle madri che vogliono proteggerli».

Nel 2010, infine, la Asociación Española de Neuropsiquiatría si è espressa con un pronunciamento ufficiale « contro l'uso clinico e legale dell'espressione "Sindrome di Alienazione Genitoriale", e altre similari aventi lo stesso significato». In tale pronunciamento la PAS è definita «un castello in aria» e si raccomanda agli iscritti di non utilizzarla in quanto mancante «di fondamento scientifico e presenta gravi rischi nella sua applicazione in tribunale».

Oltre alle analisi provenienti dal mondo accademico, anche i Centri Antiviolenza si sono espressi criticamente in merito alla PAS. In un comunicato stampa dell'ottobre 2012 l'Associazione Nazionale D.i.Re “Donne in Rete contro la violenza” che riunisce 63 tra Case delle Donne e Centri Antiviolenza, ha affermato che, nelle situazioni di maltrattamento, la diagnosi di PAS comporterebbe il rischio di ulteriori vittimizzazioni e maltrattamenti di donne e bambini. La ragione di questa posizione è che, secondo D.i.Re, la sindrome da alienazione genitoriale può essere usata “in maniera strumentale dagli autori delle violenze che fanno leva sulla minaccia di sottrarre i figli per tenere le donne sotto il loro controllo”. Infine, anche D.i.Re esprime la sua preoccupazione in merito al fatto che, per via di una diagnosi di PAS, non venga approfondita l'esistenza di violenze domestiche o violenze su minori nelle relazioni con livelli alti di conflittualità.

Diverse associazioni hanno eletto il 25 aprile come giorno dedicato alla sensibilizzazione sui presunti effetti che l'alienazione genitoriale comporterebbe nei confronti dei bambini e dei genitori «alienati». L'idea di organizzare tale giornata, il cui nome originale è Parental Alienation Awareness Day (Giornata di sensibilizzazione letteralmente «della consapevolezza» sull'alienazione genitoriale ) fu di una donna canadese, Sarvy Emo, che giudicando il comportamento di una famiglia di sua conoscenza un tipico caso di alienazione genitoriale, decise di dedicare un giorno alla presa di coscienza su tale fattispecie; la data originaria, il 28 marzo del 2005, dall'anno successivo divenne il 25 aprile; diversi Paesi, Stati federati degli Stati Uniti e alcune città canadesi accolsero le richieste di alcune associazioni favorevoli al riconoscimento della PAS e patrocinarono la giornata del 25 aprile come giorno di sensibilizzazione sull'alienazione genitoriale, anche se a leggere tra le righe di tali decisioni vi fu chi non mancò di far notare che, comunque, si trattava di riconoscimenti solamente politici della PAS, dal valore simbolico ma ininfluenti sulle decisioni cliniche in materia, stante il non riconoscimento medico di “sindrome” o “malattia”.

Diversi altri Paesi, a tutto il 2011, danno un patrocinio istituzionale alla giornata del 25 aprile, e il Brasile è stato il primo a emanare una legge che istituisce la fattispecie giuridica di “alienazione genitoriale”, definendola «una forma di abuso morale» e prevedendo sanzioni per chi la metta in atto.




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AGOPUNTURA

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L'origine dell'agopuntura in Cina è incerta. I primi riferimenti bibliografici a questa pratica sono presenti nell'antico testo cinese Huangdi Neijing, il leggendario Canone di Medicina Interna dell'Imperatore che fu compilato tra il 305 ed il 204 a.C. Prima di ciò, è ipotizzabile che venissero utilizzati strumenti in pietra o in osso, e quindi assolutamente lontani dalla visione che abbiamo oggi della pratica.

La pratica si diffuse secoli fa in molte parti dell'Asia; essa è inclusa nel corpo teorico-pratico della medicina tradizionale cinese, di cui costituisce una delle sue 5 componenti (insieme a dieta, fitoterapia, massoterapia e le ginnastiche psicofisiche quali Qi Gong e Tai Chi); alcune sue forme sono anche descritte nella letteratura della medicina tradizionale coreana (nella quale viene chiamata yakchim) come pure in India.

La data di inizio precisa dell'utilizzo dell'agopuntura in Cina e la sua evoluzione dai primi tempi sono temi incerti. Una tradizione è che alcuni soldati, feriti da frecce in battaglia, siano stati così guariti da malanni cronici che non erano altrimenti trattabili, ed esistono anche altre varianti su questo tema. In Cina sono state ritrovate pietre affilate, conosciute come Bian shi, suggerendo che la pratica possa essere datata al neolitico o forse anche prima, all'età della pietra. Sono stati trovati geroglifici e pittogrammi, risalenti alla dinastia Shang (1600 – 1100 a.C.), che suggeriscono come l'agopuntura fosse praticata insieme alla moxibustione; è stato anche ipotizzato che l'agopuntura possa avere le sue origini nel salasso o nella demonologia. Nonostante i miglioramenti nella metallurgia nel corso dei secoli, fu solo dopo il II secolo a.C., durante la dinastia Han, che gli aghi in pietra ed osso vennero sostituiti dagli aghi di metallo. I primi esempi di aghi in metallo sono stati trovati in una tomba datata 113 a.C., anche se il loro uso potrebbe non necessariamente essere stato l'agopuntura.

Il primo esempio di utilizzo di un "meridiano" invisibile per la diagnosi ed il trattamento risale al secondo secolo a.C., ma non viene menzionato l'uso di aghi, mentre il più antico riferimento all'inserimento di aghi terapeutici si ha nel testo antico Shiji che però non menziona i meridiani, e potrebbe essere un riferimento all'incisione drenante degli ascessi, piuttosto che all'agopuntura. I testi Mawangdui, anch'essi risalenti al II secolo a.C. (anche se anticipano lo Shiji), citano l'uso di pietre appuntite per aprire ascessi, e la moxibustione, ma non l'agopuntura. Tuttavia, a partire dal II secolo a.C., l'agopuntura sostituì la moxibustione come trattamento primario per le condizioni sistemiche.

La prima testimonianza scritta di agopuntura si trova nel Huangdi Neijing, datato circa 300 a.C.. Non c'è distinzione tra agopuntura e moxibustione, e viene data la stessa indicazione per i due trattamenti.

La pratica dell'agopuntura si estese dalla Cina alle aree ora facenti parte di Giappone, Corea, Vietnam e Taiwan, differenziandosi dalle più rigide teoria e pratica adottate nella medicina tradizionale cinese sulla terraferma. Un gran numero di contemporanei al di fuori della Cina seguirono queste pratiche non tradizionali, specialmente in Europa. La Corea è ritenuta il primo paese in cui l'agopuntura si diffuse al di fuori della Cina: in Corea, secondo la leggenda l'agopuntura è stata sviluppata dal leggendario imperatore Dangun, anche se è più probabile che sia stata importata da un prefetto coloniale cinese. In Cina, tra la dinastia Han e la dinastia Song, furono scritte circa novanta opere sull'agopuntura, e l'imperatore Song Ren Zong, nel 1023, ordinò la produzione di una statuetta di bronzo raffigurante i meridiani ed i punti di agopuntura allora in uso. Tuttavia, dopo la fine della dinastia Song, l'agopuntura perse valore ed iniziò a essere vista come una professione tecnica, in opposizione alla professione più teorica dell'erboristeria.

I missionari portoghesi nel XVI secolo furono tra i primi a portare racconti di agopuntura dall'Oriente. Jacobus Bontius, un chirurgo olandese che viaggiò in Asia, descrisse la pratica sia in Giappone che a Giava. Tuttavia in questo periodo in Cina la pratica veniva sempre più associata alle classi inferiori ed analfabete. Nel 1674, Hermann Buschoff, un sacerdote olandese di Batavia, pubblicò il primo libro sulla moxibustione (dal giapponese mogusa) per la cura dell'artrite. Il primo trattato occidentale sull'agopuntura fu pubblicato nel 1683 da Willem ten Rhijne, un medico olandese che aveva lavorato presso l'emporio olandese Dejima a Nagasaki per due anni. Nel 1757 il medico Xu Daqun descrisse l'ulteriore calo dell'agopuntura, descrivendola come un'arte perduta, con pochi esperti ad insegnarla; il declino fu attribuito in parte alla popolarità delle prescrizioni e dei farmaci, e in parte alla sua associazione con le classi inferiori.

Nel 1822, un editto dell'imperatore cinese vietò la pratica e l'insegnamento dell'agopuntura nell'Accademia Imperiale di Medicina, perché inadatta alla pratica degli studenti nobili. In questo periodo, l'agopuntura era ancora citata ancora in Europa con tanto scetticismo quanta ammirazione, con pochi studi e solo una piccola quantità di sperimentazioni.

Attorno agli inizi del XX secolo, nessun documento sull'agopuntura faceva riferimento ai "punti dell'agopuntura": gli aghi venivano semplicemente inseriti in prossimità del punto di dolore; i Qi erano originariamente i vapori derivanti dal cibo, ed i meridiani erano dei canali anatomici o i vasi sanguigni. Un francese, Georges Soulié de Morant, fu il primo a usare il termine "meridiano" e ad identificare il termine Qi con "energia", nel 1939.

Nei primi anni dopo la guerra civile cinese, i leader del Partito Comunista di Cina ridicolizzavano la medicina tradizionale cinese, tra cui l'agopuntura, considerandola superstiziosa, irrazionale ed arretrata, sostenendo che essa fosse in conflitto con la dedizione del partito verso la scienza come strada del progresso. Il presidente del partito comunista Mao Zedong poi cambiò questa posizione, dicendo che «la medicina cinese e la farmacologia sono un grande tesoro e si dovrebbe compiere sforzi per esplorarle ed elevarle ad un livello superiore». Sotto la guida di Mao, in risposta alla mancanza di medici moderni, l'agopuntura venne riscoperta e la sua teoria riscritta per rispettare le necessità politiche, economiche e logistiche di provvedere alle esigenze mediche della popolazione della Cina. Più tardi la teoria della medicina tradizionale degli anni '50 fu riscritta nuovamente, su insistenza di Mao, come una risposta politica alla mancanza di unità tra medicina cinese tradizionale e scientifica, e per correggere il presunto «pensiero borghese dei medici in medicina occidentale».

L'agopuntura ottenne attenzione negli Stati Uniti quando il presidente Richard Nixon visitò la Cina nel 1972. Durante parte della visita, alla delegazione fu mostrato un paziente, mentre veniva sottoposto ad un intervento di chirurgia maggiore completamente sveglio, apparentemente trattato con l'agopuntura piuttosto che con un'anestesia. Più tardi fu scoperto che i pazienti selezionati per la chirurgia avevano sia un'alta tolleranza al dolore, che ricevuto un pesante indottrinamento prima dell'operazione; questi casi dimostrativi spesso ricevevano anche morfina surrettiziamente attraverso una somministrazione endovenosa, che agli osservatori era stata detta contenere solo liquidi e sostanze nutritive. L'utilizzo dell'agopuntura come anestesia per la chirurgia cadde in disgrazia in Cina con l'avvento dei chirurghi scientificamente addestrati. Una delegazione del Committee for Skeptical Inquiry (Comitato per l'Indagine Scientifica delle Affermazioni sul Paranormale) segnalò nel 1995: «non ci è stata mostrata l'anestesia per la chirurgia tramite agopuntura, questa a quanto pare è caduta in disgrazia con i chirurghi scientificamente addestrati. Il Dr. Han, per esempio, è stato enfatico nel dire che lui ed i suoi colleghi vedono l'agopuntura solo come analgesico (riduttore di dolore), non come anestetico (agente che blocca tutte le sensazioni coscienti)».

La più grande esposizione mediatica in Occidente avvenne quando il reporter del New York Times James Reston ricevette l'agopuntura a Pechino per un dolore post-operatorio nel 1971, e ne parlò compiaciuto nel giornale. Nel 1972 fu anche istituito il primo centro legale di agopuntura negli Stati Uniti, a Washington; durante il 1973-1974, questo centro accolse fino a più di mille pazienti. Nel 1973 l'istituto del Tesoro americano Internal Revenue Service permise la detrazione delle spese di agopuntura come spese mediche.

Agopuntura e moxibustione della Medicina Tradizionale Cinese sono state dichiarate Patrimonio Culturale dell'Umanità dall'UNESCO nel 2010, classificate tra i Patrimoni orali e immateriali dell'umanità.

In Europa, gli esami sul corpo mummificato di Ötzi, la Mummia del Similaun, vecchio di quasi 5000 anni, hanno individuato 15 gruppi di tatuaggi, alcuni dei quali sono proprio situati su punti che ora sono visti come punti di agopuntura contemporanea. Questa scoperta è stata dichiarata prova che in Eurasia durante l'età del bronzo si ricorresse a pratiche simili all'agopuntura.

L'agopuntura considera il corpo umano come un insieme che coinvolge numerosi "sistemi funzionali" che sarebbero in molti casi associabili approssimativamente ad organi fisici. Alcuni di questi sistemi funzionali come il san jiao non hanno però organi fisici corrispondenti. La malattia viene interpretata come la perdita dell'omeostasi tra i vari sistemi funzionali, ed il trattamento della stessa viene tentato modificando l'attività di uno o più di questi sistemi, mediante l'azione degli aghi, della pressione, del calore, ecc. in parti sensibili e di piccole dimensioni del corpo dette punti di agopuntura o xue.

La teoria generale dell'agopuntura è basata sul presupposto che le funzioni corporee sono regolamentate da un'energia chiamata qi che scorre attraverso il corpo; le interruzioni di questo flusso sono ritenute responsabili della malattia. Si considera che il dolore indichi un blocco o una stagnazione del flusso del qi; un assioma della letteratura medica dell'agopuntura è "niente dolore, niente blocco; niente blocco, niente dolore". L'agopuntura racchiude una famiglia di procedure che mirano a correggere gli squilibri nel flusso del qi tramite stimolazione di sedi anatomiche (solitamente chiamate "punti di agopuntura" o "agopunti") sulla o sotto la pelle , attraverso una varietà di tecniche. Il meccanismo più comune di stimolazione dei punti dell'agopuntura si avvale della penetrazione nella pelle di sottili aghi metallici, che possono poi essere manipolati manualmente o mediante stimolazione elettrica.

Secondo le teorie degli agopunturisti, esisterebbero dodici canali principali, detti meridiani, che si estendono verticalmente, bilateralmente e simmetricamente; ogni canale corrisponderebbe e si connetterebbe internamente ad ognuno dei dodici zang fu ("organi"). Significa che vi sarebbero sei canali yin e sei yang; vi sono tre canali yin e tre yang che corrono su ciascun braccio, tre yin e tre yang su ciascuna gamba.

Secondo tali teorie, i tre canali yin della mano (polmone, pericardio e cuore), cominciano dal petto e viaggiano lungo la faccia interna (principalmente la porzione anteriore) del braccio, verso la mano.
I tre canali yang della mano (intestino crasso, san jiao e intestino tenue) iniziano dalla mano e viaggiano lungo la faccia esterna (principalmente la porzione posteriore) del braccio, verso la testa.
I tre canali yang del piede (stomaco, cistifellea e vescica) cominciano dal volto, nella regione dell'occhio e discendono lungo il corpo lungo la faccia esterna (principalmente la porzione anteriore e laterale) della gamba, verso il piede.
I tre canali yin del piede (milza, fegato e reni) cominciano dal piede e viaggiano lungo la faccia interna (principalmente la porzione posteriore e mediale) della gamba, verso il petto o il fianco.
Il presunto flusso del qi attraverso ciascuno dei dodici canali comprenderebbe una via interna ed una esterna. La via esterna è quella normalmente mostrata su una mappa per l'agopuntura ed è relativamente superficiale. Tutti i punti di agopuntura di un canale risiedono nella sua via esterna. Le vie interne costituiscono il corso profondo del canale nel quale entrano le cavità del corpo e gli organi Zang-Fu correlati. I percorsi superficiali dei dodici canali descrivono tre circuiti completi del corpo.



Il presunto flusso di energia attraverso i meridiani sarebbe il seguente: dal canale "polmone" della mano (taiyin), al canale "intestino crasso" della mano (yangming), al canale "stomaco" del piede (yangming), al canale "milza" del piede (taiyin), al canale "cuore" della mano (shaoyin), al canale "intestino tenue" della mano (taiyang), al canale "vescica" del piede (taiyang), al canale "rene" del piede (shaoyin), al canale "pericardio" della mano (jueyin), al canale San Jiao della mano (shaoyang), al canale "cistifellea" del piede (shaoyang), al canale "fegato" del piede (jueyin), e poi nuovamente al canale "polmone" della mano (taiyin).

Il trattamento dei punti di agopuntura può essere effettuato lungo i dodici meridiani principali o gli otto addizionali. Dieci dei meridiani principali sono chiamati con nomi di organi del corpo (cuore, fegato, ecc.), due con nomi di cosiddette funzioni corporee (protettore del cuore o pericardio, e San Jiao, riscaldatore triplice). I due più importanti degli otto meridiani "addizionali" sono situati nella linea mediana delle facce anteriori e posteriori del tronco e della testa.

Sta agli agopunturisti decidere quali punti trattare, ponendo domande al paziente e avvalendosi degli strumenti diagnostici della medicina occidentale e della medicina tradizionale cinese, come l'analisi del polso radiale destro o sinistro in tre livelli di pressione applicata.

L'agopuntura è utilizzata è anche come strumento di diagnosi delle malattie. L'elettroagupuntura secondo Rheinold Voll misura la variazione di resistenza elettrica in alcuni punti, evidenziando malattie, allergie, resistenza o efficacia di singoli farmaci.

A partire dalla fine del XX secolo, l'agopuntura è stata sottoposta ad un'enorme mole di studi scientifici volti ad analizzarne l'efficacia in maniera rigorosa, in modo da escludere l'eventualità che dei risultati positivi siano dovuti al semplice effetto placebo: i pazienti vengono divisi in due o più gruppi, e si confrontano i risultati tra il gruppo sottoposto alla vera agopuntura e quello sottoposto all'inserimento di aghi in posizioni casuali. L'argomento rimane tuttavia ancora controverso, e l'accuratezza di alcuni studi è stata messa in dubbio. I risultati sono a volte contrastanti: ad esempio, studi relativi al trattamento del dolore ne hanno dimostrato l'efficacia limitatamente ad alcuni tipi di dolore e l'inefficacia negli altri.

Nel caso della nausea, studi sistematici hanno concluso che la stimolazione di un particolare punto (con l'agopuntura, la digitopressione o altri metodi) ha effetti antiemetici ai fini della riduzione della nausea post intervento chirurgico.

Non esiste invece alcuna prova scientifica o anatomica che esistano il qi o i meridiani che sono i concetti centrali dell'agopuntura.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha effettuato un'analisi dettagliata delle sperimentazioni scientifiche riguardo l'agopuntura valutandone l'attendibilità, «al fine di promuovere l'uso appropriato dell'agopuntura in quegli Stati membri in cui l'agopuntura non è stata ampiamente utilizzata».

In alcuni paesi non ci sono requisiti legali riguardo all'istruzione degli operatori, e chiunque può autoproclamarsi agopunturista, rendendo difficile discernere l'effettivo valore delle licenze e dell'istruzione degli agopunturisti. Molti paesi non conferiscono titoli di agopuntore o non richiedono particolari corsi.

L'agopuntura rientra tra le "medicine e pratiche non convenzionali" ritenute rilevanti da un punto di vista sociale in Italia, sulla base delle indicazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio d'Europa nonché in base alla maggiore frequenza di ricorso ad essa da parte dei cittadini, oltre che degli indirizzi medici non convenzionali.

In Italia possono praticare l'agopuntura solo medici e veterinari laureati, poiché la si considera un atto eminentemente medico: «l'Agopuntura, la Fitoterapia e l'Omeopatia costituiscono atto sanitario e sono oggetto di attività riservata perché di esclusiva competenza e responsabilità professionale del medico chirurgo, dell'odontoiatra professionale, del medico veterinario e dei farmacista, ciascuno per le rispettive competenze». Chi la pratica senza questo requisito commette un atto illegale, punibile penalmente (sentenza della Corte di Cassazione, 1982).

Chiunque è stato formato all'estero in Medicina deve sostenere in Italia l'esame di stato per poterla esercitare: centri nei quali l'eventuale agopunturista cinese è "coperto" da un medico italiano o comunque abilitato, sono illegali. Questa posizione si fonda sul principio che qualunque intervento terapeutico debba essere preceduto da una diagnosi corretta. Ciò non toglie che anche il medico debba seguire una formazione precisa per esercitare l'agopuntura, non potendo improvvisarsi.

Il principio era stato ribadito anche a Terni dal Convegno Nazionale della FNOMCeO nel 2002; nonostante alcune proposte di legge risalissero già al 1987, soltanto il 7 febbraio 2013, nella conferenza permanente Stato-Regioni, è stato emanato un accordo che regolamenta sia la qualità della formazione e della pratica dell'agopuntura, sia il riconoscimento legale del profilo professionale di medico agopuntore, istituendo presso gli Ordini professionali provinciali dei medici chirurghi e degli odontoiatri, elenchi dei professionisti esercenti l'agopuntura.

Agopuntura e moxibustione sono inoltre trattate in varie strutture ospedaliere e territoriali italiane.

L'uso dell'agopuntura per determinate condizioni è stato approvato dal National Institutes of Health (Istituti Nazionali di Sanità) degli Stati Uniti, dal National Health Service del Regno Unito, dalla Organizzazione mondiale della sanità e dal National Center for Complementary and Alternative Medicine. Alcuni scienziati hanno criticato queste scelte come eccessivamente ingenue e non tenenti conto delle obiezioni o critiche mosse alle ricerche effettuate per dimostrare l'efficacia dell'agopuntura.

La scelta di una medicina alternativa come sostituzione alle moderne cure mediche standard potrebbe comportare l'inadeguatezza della diagnosi, o del trattamento, di condizioni per le quali la medicina moderna ha una soluzione di maggiore efficacia. Come con le altre medicine alternative, personale disonesto od inesperto potrebbe anche indurre pazienti ad esaurire le proprie risorse finanziarie nel perseguire trattamenti inefficaci.

Codici deontologici dettati da organizzazioni accreditate, come il National Certification Commission for Acupuncture and Oriental Medicine, richiedono ai professionisti di effettuare "tempestivi invii ad altri professionisti sanitari se opportuno".

La comunità scientifica ha più volte ribadito che i "presupposti" su cui si basa l'agopuntura sono del tutto privi di valore scientifico. Il NCAHF (National Council Against Health Fraud) nel 1990 ha pubblicato uno studio secondo il quale «La ricerca durante gli ultimi venti anni ha fallito nel dimostrare che l'agopuntura sia efficace contro qualunque malattia» e che «gli effetti percepiti dell'agopuntura sono probabilmente causati da una combinazione di aspettative, suggestione, revulsione, condizionamento e altri meccanismi psicologici». In parole povere, molti degli effetti benefici percepiti sono probabilmente causati da cambiamenti nello stato d'animo, dall'effetto placebo e dalla fallacia regressiva. Tuttavia i ricercatori hanno evidenziato che questo meccanismo dovrebbe essere studiato ancora meglio, per capirne tutte le implicazioni a livello neuroendocrino.

Secondo una ricerca eseguita dalla neurobiologa Maiken Nedergaard e dai suoi collaboratori presso l'University of Rochester Medical Center e pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience, l'agopuntura agirebbe favorendo il rilascio nei tessuti interessati di adenosina, che entra in relazione con i segnali di dolore al cervello.

L'agopuntura è una tecnica poco invasiva. Il gruppo di studio dei National Institutes of Health, istituzione pubblica statunitense per la ricerca medica, ha rilasciato la seguente dichiarazione riguardo ai rischi associati all'agopuntura: «Effetti collaterali avversi dell'agopuntura sono estremamente ridotti e sicuramente minori dei trattamenti convenzionali». C'è accordo generale sul fatto che l'agopuntura sia sicura se somministrata da operatori qualificati utilizzando aghi sterili e che essa presenti un rischio molto basso di gravi effetti collaterali.
Tuttavia, poiché nell'agopuntura gli aghi penetrano nella pelle, sono comunque procedure invasive e quindi non prive di rischio. Le lesioni sono rare tra i pazienti trattati dai professionisti addestrati in certi paesi. A volte, gli aghi devono, per legge, essere sterili e monouso; in alcuni paesi, gli aghi possono essere riutilizzati se essi sono prima risterilizzati, ad esempio in autoclave. Quando gli aghi sono contaminati, il rischio di infezioni batteriche o di altre infezione ematiche aumenta, come avviene con il riutilizzo di qualsiasi tipo di ago. Anche l'OMS ha pubblicato un documento relativo ai rischi clinici ed alla corretta pratica dell'agopuntura: vengono menzionati rischi infettivi, soprattutto se sono usati aghi multiuso che non sono stati sterilizzati a dovere (i quali potrebbero trasferire infezioni come l'HIV o l'epatite), ed il rischio di provocare ematomi a seguito della puntura accidentale di strutture circolatorie, che può capitare soprattutto se non vengono seguite le indicazioni sulla profondità e l'angolazione dell'infissione.

La stragrande maggioranza degli eventi avversi da agopuntura sono eventi minori, e si stima che si verifichino in circa il 7-12% dei trattamenti, sia negli adulti che nei bambini. Quelli segnalati più comunemente riguardano il sito di inserzione dell'ago: sanguinamento minore (3%), ematoma (2-3%) e dolore da puntura (fino al 3%). Vertigini sono segnalate in circa l'1% dei trattamenti.

Gli eventi avversi gravi sono estremamente rari, nell'ordine di 5 casi su 1 milione e sono di solito provocati da agopuntori scarsamente addestrati o senza licenza. Sono frequentemente causati da un errore medico, e sono estremamente rari e variegati: i più comuni sono le infezioni causate da aghi non sterili e le lesioni da posizionamento improprio degli aghi, come la puntura di una struttura importante o un danno nervoso. La maggior parte dei casi avvengono in Asia, probabilmente riflettendo l'elevato numero di trattamenti eseguiti, od un numero relativamente maggiore di agopuntori scarsamente addestrati. Una revisione sistematica nel 2010 ha calcolato che l'agopuntura, negli anni analizzati, è stata associata ad un numero di decessi pari ad 86, più comunemente a causa di pneumotorace. Le malattie infettive segnalate, dal 1970, includono infezioni batteriche (50 casi) ed epatite B (in più di 80 casi). Anche se molto raramente, nella pratica sono possibili lesioni, per inserimento troppo profondo dell'ago, a qualsiasi sito del corpo, compresi il cervello, qualsiasi nervo, i reni od il cuore. Molti degli eventi avversi gravi non sono intrinseci dell'agopuntura, ma piuttosto causati da cattive pratiche (come punture improprie od aghi non sterili), e questo potrebbe essere il motivo per cui tali complicazioni non vengono rilevate nelle indagini sugli agopuntori adeguatamente addestrati.

In Occidente da parecchi anni l'Agopuntura è messa al vaglio dalla medicina ufficiale e sono numerosissimi gli studi pubblicati sulle sue più diverse applicazioni. Pur mancando ancora studi attendibili su tutte le applicazioni, sono state ormai accertate le virtù dell'Agopuntura in alcuni campi specifici.

La visita medica condotta da un agopuntore resta sempre un'esperienza interessante. Il medico che esercita la medicina cinese deve essere innanzitutto un attento osservatore, perché la tradizione dà enorme importanza alla capacità di cogliere tutte le informazioni che i sensi forniscono al medico. Di fatto proprio l'osservazione del paziente è il primo e fondamentale passo verso la diagnosi.

L'agopuntura e le tecniche ad essa affini utilizzano la stimolazione di punti energeticamente attivi della superficie corporea per agire su molteplici disturbi, siano essi ad origine più superficiale (pelle, muscoli), oppure più profonda (organi interni).

Le mestruazioni dolorose sono un fenomeno molto frequente tra le donne occidentali. La Medicina Tradizionale Cinese è in grado di intervenire efficacemente nella terapia del dolore mestruale con l'agopuntura.

Il trattamento con agopuntura in ambito pediatrico si è rivelato, laddove viene richiesto, una strategia terapeutica vincente, con benefici che superano quelli che sono ottenuti sull’organismo dell’adulto.

L’ansia e la depressione, così come molti altri disturbi della sfera emotiva, possono essere curate con l’agopuntura.

Dove viene individuata la causa di un disturbo dell'articolazione tempero-mandibolare, l'agopuntura può essere una terapia di sostegno regolativa e curativa in maniera determinante e che agisce sulla causa della malocclusione.

Le patologie della pelle sono numerose e tra queste ce ne sono alcune che rispondono meno di altre ai trattamenti farmacologici. Sono proprio queste ultime a trovare maggiore giovamento dal trattamento attraverso l’Agopuntura.

Negli ultimi anni si è sviluppata una nuova tecnica Ayurvedica che sfrutta gli stessi principi e la stessa tecnica dell’agopuntura classica, ma non prevede l’uso degli aghi.

Si parla molto dell’agopuntura per smettere di fumare, anche perché è un grosso business, però in letteratura medica non c’è un solo studio che dimostri l’utilità dell’agopuntura per smettere di fumare. Mentre invece ce ne sono tanti che dimostrano che sulle cefalee funziona, così come sui dolori muscolo-scheletrici, sui disturbi ginecologici e tutta una serie di altre cose.
Il fumo non è una malattia, è un’abitudine. E l’agopuntura non fa cambiare le abitudini.
   
I miglioramenti si avvertono a volte immediatamente, a volte dopo qualche seduta. Comunque non ha molto senso effettuare più di cinque o sei trattamenti di agopuntura se non si hanno avuti risultati in quel periodo, soprattutto nelle patologie dolorose. Mentre invece se lei tratta un’amenorrea ci possono anche voler tre mesi per vedere dei risultati, perché venendo il ciclo una volta al mese, è difficile osservare un cambiamento in tempi brevi.



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ATTACCHI DI PANICO

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La parola “panico” nasce dalla mitologia greca in cui si narra del “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, abituato a comparire all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore interiore e scomparendo poi velocemente, lasciando le proprie vittime nell’incapacità di spiegarsi quanto è accaduto e ciò che hanno provato.

Similmente a quanto si racconta in tale leggenda, un attacco di panico è un episodio breve ed intenso in cui si sperimenta ansia acuta, che insorge in modo improvviso e che comporta sintomi fisici e vissuti psicologici di terrore.

L’esperienza dell’attacco di panico è una delle più stressanti fisicamente e mentalmente, perché la reazione è simile a quella di attacco-fuga che una persona sperimenta di fronte ad un pericolo reale. Di conseguenza gli effetti psicofisici sono debilitanti e la sensazione dopo un attacco di panico è di essere molto deboli, persino esausti e sicuramente scoraggiati e confusi.
Talvolta la prima e più comune convinzione è che si sia colpiti da un problema fisico, da una malattia, il più delle volte di natura circolatoria, e cardiaca in particolare.
All’attacco di panico spesso seguono accertamenti medici più o meno ripetuti per ricercare la causa del malessere vissuto: la valutazione ostinata dello stato di salute di ogni funzione fisica è legata alla tendenza comune ad accettare più facilmente di avere un problema corporeo che ha generato questo “inferno fisico ed emotivo” piuttosto che essere disposti a pensare che sia qualcosa di interiore, di intangibile, di psicologico.
Il diffuso interessamento fisico durante l’episodio di panico fornisce un supporto alla ipotesi di avere un problema di tipo medico e, d’altro canto, è importante escludere che ci sia un malfunzionamento fisico all’origine del malessere. Generalmente l’esclusione di una problematica fisica genera stati emotivi di imbarazzo, vergogna, rifiuto della natura del problema e una certa incredulità, soprattutto se non si viene informati che esistono dei fattori fisiologici funzionali che spiegano e mediano questo disagio. È estremamente importante che il problema venga affrontato con l’aiuto professionale giusto al più presto, rielaborandolo e cambiando lo stile di vita, affinché non si cristallizzi e non si ripresenti, diventando uno sgradevole “compagno di vita”. L’esperienza mostra infatti che, senza opportuni trattamenti, l’attacco di panico può ripresentarsi e acquisire una frequenza media plurisettimanale o, in casi peggiori, presentarsi anche più volte al giorno.

Tuttavia ciò che spesso si innesca dopo il primo attacco di panico è una paura persistente di avere un nuovo attacco di panico, una trappola che può finire per incatenare una persona nell’esperienza di attacchi ripetuti, che viene definita disturbo di panico.
La paura di nuovi attacchi di panico è irrazionale e comporta una crescita della resistenza ad ogni sintomo d’ansia, con un notevole aumento dell’automonitoraggio di ogni segnale fisico.



Gli attacchi di panico sono episodi di improvvisa ed intensa paura o di una rapida escalation dell’ansia normalmente presente. Sono accompagnati da sintomi somatici e cognitivi, quali palpitazioni, sudorazione improvvisa, tremore, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigini, paura di morire o di impazzire, brividi o vampate di calore.
La caratteristica essenziale del Disturbo di Panico è la presenza di attacchi di panico ricorrenti, inaspettati, seguiti da almeno 1 mese di preoccupazione persistente di avere un altro attacco di panico.
La persona si preoccupa delle possibili implicazioni o conseguenze degli attacchi d’ansia e cambia il proprio comportamento in conseguenza degli attacchi, principalmente evitando le situazioni in cui teme che essi possano verificarsi.
Il primo attacco di panico è generalmente inaspettato, cioè si manifesta “a ciel sereno”, per cui il soggetto si spaventa enormemente e, spesso, ricorre al pronto soccorso; poi possono diventare più prevedibili.
Per la diagnosi sono richiesti almeno due attacchi di panico inaspettati, ma la maggior parte degli individui ne hanno molti di più.
Gli individui con Disturbo di Panico mostrano caratteristiche preoccupazioni o interpretazioni sulle implicazioni o le conseguenze degli attacchi di panico. La preoccupazione per il prossimo attacco o per le sue implicazioni sono spesso associate con lo sviluppo di condotte di evitamento che possono determinare una vera e propria Agorafobia, nel qual caso viene diagnosticato il Disturbo di Panico con Agorafobia.
Di solito gli attacchi di panico sono più frequenti in periodi stressanti. Alcuni eventi di vita possono infatti fungere da fattori precipitanti, anche se non indicono necessariamente un attacco di panico. Tra gli eventi di vita precipitanti riferiti più comunemente troviamo il matrimonio o la convivenza, la separazione, la perdita o la malattia di una persona significativa, l’essere vittima di una qualche forma di violenza, problemi finanziari e lavorativi.
I primi attacchi si verificano di solito in situazioni agorafobiche (come guidare da soli o viaggiare su un autobus in città) e comunque spesso in qualche contesto stressante.
Gli eventi stressanti, le situazioni agorafobiche, il caldo e le condizioni climatiche umide, le droghe psicoattive possono infatti far insorgere sensazioni corporee che possono essere interpretate in maniera catastrofica, aumentando il rischio di sviluppare attacchi di panico.

L’attacco di panico ha un inizio improvviso, raggiunge rapidamente l’apice (di solito entro 10 minuti o meno) e dura circa 20 minuti (ma a volte molto meno o di più).
I sintomi degli attacchi di panico tipici sono:
– Palpitazioni/tachicardia (battiti irregolari, pesanti, agitazione nel petto, sentirsi il battito in gola)
– Paura di perdere il controllo o di impazzire (ad esempio, la paura di fare qualcosa di imbarazzante in pubblico o la paura di scappare quando colpisce il panico o di perdere la calma)
– Sensazioni di sbandamento, instabilità (capogiri e vertigini)
– Tremori fini o a grandi scosse
– Sudorazione
– Sensazione di soffocamento
– Dolore o fastidio al petto
– Sensazioni di derealizzazione (percezione del mondo esterno come strano e irreale, sensazioni di stordimento e distacco) e depersonalizzazione (alterata percezione di sé caratterizzata da sensazione di distacco o estraneità dai propri processi di pensiero o dal corpo)
– Brividi
– Vampate di calore
– Parestesie (sensazioni di intorpidimento o formicolio)
– Nausea o disturbi addominali
– Sensazione di asfissia (stretta o nodo alla gola)

Non tutti i sintomi sono necessari perché si tratti di un attacco di panico. Vi sono molti attacchi caratterizzati solo o in particolare da alcuni di questi sintomi. La frequenza e la gravità dei sintomi degli attacchi di panico varia ampiamente nel corso del tempo e delle circostanze. Ad esempio, alcuni individui presentano attacchi moderatamente frequenti, che si manifestano regolarmente per mesi. Altri riferiscono brevi serie di attacchi più frequenti, magari con sintomi dell’attacco di panico meno intensi, intervallate da settimane o mesi senza attacchi o con attacchi meno frequenti  per molti anni.
Vi sono anche i cosiddetti attacchi paucisintomatici, molto comuni negli individui con Disturbo di Panico, che sono degli attacchi in cui si manifestano soltanto una parte dei sintomi del panico, senza esplodere in un vero attacco. La maggior parte degli individui con sintomi di attacco di panico paucisintomatico, tuttavia, hanno avuto attacchi di panico completi, con tutti i sintomi classici, in qualche momento nel corso del disturbo.
Durante un attacco di panico, pensieri catastrofici automatici e incontrollati riempiono la mente della persona, che ha quindi difficoltà a pensare chiaramente e teme che tali sintomi siano veramente pericolosi. Alcuni temono che gli attacchi indichino la presenza di una malattia non diagnosticata, pericolosa per la vita. Nonostante i ripetuti esami medici e la rassicurazione, possono rimanere impauriti e convinti di essere fisicamente vulnerabili. Altri temono che i sintomi dell’attacco di panico indichino che stanno “impazzendo” o perdendo il controllo, o che sono emotivamente deboli e instabili.



I sintomi devono raggiungere il culmine in 10 minuti e di solito scompaiono nell'arco di alcuni minuti, lasciando scarsi elementi all'osservazione del medico, tranne la paura del soggetto di avere un altro terrificante attacco di panico. Sebbene spiacevoli (a volte in grado estremo), gli attacchi di panico non sono pericolosi. Gli attacchi di panico e il disturbo da attacchi di panico possono essere talmente gravi e dirompenti da provocare depressione. In altri casi, questi disturbi d'ansia e la depressione possono coesistere (comorbilità), oppure la depressione può insorgere per prima e i segni e sintomi dei disturbi d'ansia possono manifestarsi successivamente. Stabilire se questi attacchi siano talmente gravi da configurarsi come disturbo è una decisione che dipende da numerose variabili e i medici divergono nel porre la diagnosi. Se causano molta sofferenza, interferiscono con il funzionamento e non cessano spontaneamente entro pochi giorni, è presente un disturbo d'ansia che merita una terapia.

I disturbi d'ansia vanno distinti dall'ansia vera e propria che si manifesta in molti altri disturbi psichiatrici, poiché essi rispondono a trattamenti specifici differenti.

Nella cura degli attacchi di panico con o senza agorafobia e dei disturbi d’ansia in generale, la forma di psicoterapia che la ricerca scientifica ha dimostrato essere più efficace, nei più brevi tempi possibile, è quella “cognitivo-comportamentale“. Si tratta di una psicoterapia breve, a cadenza solitamente settimanale, in cui il paziente svolge un ruolo attivo nella soluzione del proprio problema e, insieme al terapeuta, si concentra sull’apprendimento di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali alla cura degli attacchi di panico, nell’intento di spezzare i circoli viziosi del disturbo.
Per panico e agorafobia, una cura a base di terapia cognitivo comportamentale è altamente raccomandabile e di prima scelta. Sostanzialmente è controindicato affidarsi ai farmaci o ad altre forme di psicoterapia senza intraprendere quella forma di trattamento che l’intera comunità scientifica ha dimostrato essere la più efficace per la cura degli attacchi di panico.

La cura farmacologica degli attacchi di panico e dell’agorafobia, per quanto spesso sconsigliabile (almeno come unico trattamento), si basa fondamentalmente su due classi di farmaci: benzodiazepine e antidepressivi, spesso impiegati in associazione.
Nelle forme lievi la prescrizione di sole benzodiazepine può essere sufficiente come cura degli attacchi di panico temporanea, ma difficilmente risolutiva. Le molecole più adoperate sono l’alprazolam, l’etizolam, il clonazepam, il lorazepam. Tali farmaci, però, nel caso di attacchi di panico e agorafobia, rischiano di dare forte dipendenza e mantenere il disturbo, soprattutto se non si effettua parallelamente una psicoterapia cognitivo comportamentale.
Degli antidepressivi si sono mostrati efficaci nella cura degli attacchi di panico e dell’agorafobia i triciclici – TCA – (es clorimipramina, imipramina, desimipramina), gli inibitori delle mono amino ossidasi (IMAO) e sopratutto gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina – SSRI – (es citalopram, escitalopram, paroxetina, fluoxetina, fluvoxamina, sertralina), oggigiorno largamente impiegati.
Quest’ultima classe di farmaci presenta infatti, rispetto alle precedenti, una maggiore maneggevolezza e minori effetti collaterali.
Nei casi di attacchi di panico e agorafobia che non rispondono alla cura con SSRI, possono essere impiegati i TCA, anche se molti clinici utilizzano tali molecole come terapia di primo impiego.
Gli IMAO, pur essendo farmaci molto efficaci, sono quasi del tutto caduti in disuso come strumento di cura degli attacchi di panico per i gravi effetti collaterali che possono presentarsi qualora vi fosse l’associazione di alcune molecole o non venissero rispettate le restrizioni alimentari prescritte.

Il disturbo di solito esordisce nella tarda adolescenza o nella prima età adulta ed ha un'incidenza da due a tre volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Tuttavia, spesso tale disturbo non viene riconosciuto e di conseguenza non viene mai curato. La maggior parte delle persone guarisce, mentre una rilevante minoranza sviluppa invece un disturbo da recidiva di attacchi di panico.

Le cause dei disturbi d'ansia come gli attacchi di panico e il disturbo da attacchi di panico non sono completamente note, ma sono implicati fattori fisiologici e psicologici. Dal punto di vista fisiologico, tutti i pensieri e i sentimenti possono essere concepiti come risultanti da processi elettrochimici cerebrali; tuttavia ciò dice poco sulle complesse interazioni tra i più di 200 neurotrasmettitori e neuromodulatori del cervello, nonché sull'ansia e sullo stato di allarme normale e patologico. Dal punto di vista psicologico, gli attacchi di panico e il disturbo da attacchi di panico sono considerati una risposta ad agenti stressanti ambientali, come l'interruzione di una relazione significativa o l'esposizione a un disastro potenzialmente letale.

Il sistema d'ansia di una persona di solito compie passaggi adeguati e impercettibili dal sonno, attraverso lo stato di allarme, sino all'ansia e alla paura. I disturbi d'ansia si manifestano quando il sistema d'ansia funziona in modo inadeguato oppure, a volte, quando è sopraffatto dagli eventi.

I disturbi d'ansia possono essere dovuti a un disturbo fisico oppure all'uso di una sostanza legale o illecita. Per esempio, l'ipertiroidismo oppure l'uso di corticosteroidi o cannabinoidi possono produrre segni e sintomi identici a quelli di alcuni disturbi d'ansia primari.

Il disturbo deriva da una disfunzione che è al tempo stesso biologica e psicologica; la terapia farmacologica e quella comportamentale di solito aiutano a controllare i sintomi. Oltre alle informazioni circa il disturbo e il relativo trattamento, il medico può fornire una realistica speranza di miglioramento e un sostegno basato su un rapporto di fiducia con il paziente. La psicoterapia di sostegno è parte integrante del trattamento di tutti i disturbi d'ansia. La terapia individuale, di gruppo e familiare può aiutare a risolvere i problemi associati a un disturbo di lunga data.






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IL COLPO DELLA STREGA

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Nell’anno 1621 in Svezia, nella città di Leonberg una signora di 73 anni, di nome Katharine, fu condannata per stregoneria con ben 49 persone che testimoniavano la sua colpevolezza. Tra questi, c’era un uomo che accusava la donna di aver fatto ammalare la moglie di un vicino di casa, un altro diceva che la donna avrebbe cercato di acquistare il cranio di un signore per utilizzarlo come calice o ornamento domestico, ed ancora, di aver fatto un malocchio ad una persona causandole un grave malore, la donna veniva accusata di aver compiuto studi sull’astrologia, ma ciò che portò la donna al rogo fu un determinato avvenimento.

Katherine passeggiando per le strade del paese incontrò una bambina di dodici anni che portava mattoni bollenti tra le braccia, destinati al forno di una osteria, la piccola era affaticata e sofferente ed a malapena si reggeva in piedi. Per sbaglio Katherine urtò la bambina, che subì un colpo al braccio, il cui dolore peggiorò nei giorni seguenti, irradiandosi anche lungo la schiena. La bambina accusò la vecchia dicendo che era stata lei, colpendola, a dargli quel dolore.

A quei tempi, le donne portavano tra le braccia, o sulle spalle, dei pesi superiori a quelli che potevano realmente sopportare, i pesi per di più erano spesso roventi o spigolosi, e spesso facevano vacillare le donne da una parte all’altra, facendole sbandare e quindi finire su altri passanti. Questi enormi sforzi causavano dolori alla schiena e alle braccia, ma l’ignoranza di quel tempo, faceva pensare subito a una maledizione di qualche strega. Infatti i dolori delle bambina ovviamente non erano stati causati da una qualche magia della vecchietta, ma semplicemente da un affaticamento della schiena. Questo però allora non veniva nemmeno considerato, e quindi Katherine andò al rogo, come tante altre donne di quel tempo che sfortunatamente non avevano la simpatia della gente.

Un'altra leggenda narra che le streghe, sotto sembianze di bellissime donne, facevano invaghire gli uomini e nel momento del baciamano mandavano a questi sfortunati una maledizione che li bloccava in posizione china.



Il colpo della strega è un episodio di lombalgia acuta che si manifesta con un dolore particolarmente intenso localizzato nella bassa schiena. Il soggetto che ne viene colpito lamenta un senso di estrema rigidità lungo tutta la muscolatura lombare. Proprio a causa di questo forte senso di compressione l'individuo tende a rimanere nella posizione in cui ha avvertito il colpo, ricercando il punto di appoggio più vicino.
I muscoli dolenti ed eccessivamente contratti riescono in questo modo a distendersi gradualmente fino a consentire dopo qualche ora la ripresa dei primi movimenti.
Alcune persone ignare del pericolo che tale gesto potrebbe creare, invece di ricercare le condizioni di massima immobilità per riposare la muscolatura, tendono a rialzarsi immediatamente con un movimento piuttosto brusco. Questo approccio è ovviamente sconsigliato, in quanto potrebbe causare ulteriori lesioni sia a livello muscolare che osteoarticolare. Il colpo della strega è un trauma secco ed improvviso che si risolve nel giro di 2 o 3 giorni ma che richiede poi un periodo ben più lungo per la scomparsa completa del dolore.
Il più delle volte insorge a causa di movimenti insoliti, forzati, troppo intensi o mal controllati.




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LA FEBBRE DEL LABBRO

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In Italia una persona su tre dichiara di avere sofferto almeno una volta nella vita di questo fastidioso problema ed il 15% degli adulti dichiara di avere avuto una recidiva erpetica nell’ultimo anno.

L’herpes labiale, conosciuto anche come “febbre sorda” o “febbre delle labbra” è causato dal virus Herpes Simplex di tipo 1; un virus a doppia elica della grandezza di 150 nanometri, che non scompare dopo la prima manifestazione, ma causa un’infezione latente, nascondendosi nei gangli nervosi, dove non può essere attaccato dagli anticorpi circolanti nel sangue (per questo è impossibile da eliminare). Le cause che portano ad una nuova attivazione, facendolo uscire dal suo nascondiglio per raggiungere nuovamente la superficie muco-cutanea dove si moltiplica, causando la comparsa dell’herpes, non sono ancora chiare.
Tra le più probabili cause: raggi solari, in particolare UVB ma anche i raggi UV sintetici (solarium), raffreddore, febbre, problemi psichici e nervosi (es. stress lavorativo o eccesso emotivo), fatica (es. dopo un cambiamento di orari o jet lag al ritorno delle vacanze), freddo, scottature in particolare a livello della bocca (dopo un’esposizione al sole e la comparsa di vesciche), un indebolimento del sistema immunitario (es,. in caso di forte affaticamento o di malattie che coinvolgono il sistema immunitario come l’AIDS), le variazioni ormonali legate al ciclo mestruale e alla gravidanza, gli interventi chirurgici, l’assunzione di particolari tipi di cibo.

Nella fase prodomica il soggetto può avvertire dei sintomi specifici come pizzicore, prurito, bruciore e dolore. Questa fase dura da poche ore ad un giorno e si è già potenzialmente contagiosi, anche se non si sono formate le vescicole. In seguito si verifica la fase delle vescicole (che possono diventare grandi dai 2 ai 5 mm, ripiene di liquido giallognolo) poi arriva la fase ulcerosa, in cui le pustole scoppiano e confluiscono a formare un’unica grande ulcera dolente di colore grigio (il liquido che fuoriesce è ancora molto contagioso), la fase della crosta dura, in cui la crosta molle già formatasi diventa via via più dura ed assume un colore rosso scuro. In questa fase il soggetto può lamentare prurito e dolore dovuto al sanguinamento della crosta. A questo punto, egli non è più contagioso.



La trasmissione avviene con il contatto con il siero presente nelle vescicole: basta un bacio oppure lo scambio immediato di bicchieri, posate o tovaglioli, asciugamani, rossetti, spazzolini da denti. Attenti anche a toccare la parte infetta con le mani: vanno lavate subito, perché esiste la possibilità di autoinfettarsi, trasmettendo il virus da un punto all’altro del proprio corpo (per esempio dalle labbra agli occhi o ai genitali).

L’herpes labiale guarisce nella maggior parte dei casi da solo; tuttavia, per facilitarne la guargione, può essere utile ricorrere a specifiche pomate antivirali, solitamente a base di aciclovir, valaciclovir, famciclovir, che vengono stese sulla zona del labbro colpita dalla febbre, più volte al giorno fin dall’inizio della manifestazione. Nei casi più resistenti, il medico può prescrivere farmaci antivirali per bocca. Tra i rimedi per l’herpes labiale si sono diffusi patch, ossia cerottini da applicare sulla zona infetta, contenenti principi attivi antivirali che, applicati sull’eruzione, contrastano i sintomi e facilitano la guarigione, creando allo stesso tempo un ambiente protetto dagli agenti esterni. In questo modo si elimina il rischio di autoinfezione e di sovrainfezioni batteriche della lesione, aiutando a nascondere le antiestetiche vescicole. In farmacia è disponibile un piccolo apparecchio a forma di stick per labbra che combatte l’herpes labiale utilizzando calore concentrato.




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DOLORI E METEO

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Il rapporto tra medicina e meteorologia è antico, Ippocrate era sicuro ci fosse un rapporto molto stretto; stessa conclusione per i maestri della tradizione cinese.

Lo stesso Ippocrate, nel 400 aC, si accorse che alcune malattie sono stagionali. Il termine medicina cinese tradizionale per i reumatismi (Fengshi bing) si traduce in "malattia vento umido".

In epoca moderna, i ricercatori sono stati a lungo più cauti. I primi studi approfonditi sono datati metà anni Novanta, uno dei migliori è firmato da Amos Tversky dell'università di Stanford che dopo aver seguito per un lungo periodo una ventina di pazienti concluse: "Non ci sono prove scientifiche, anche se è indubbio che l'umore subisca le variazioni climatiche e di conseguenza abbia un peso anche sulla salute".
Per chi soffre di artrite, ma non solo c'è una relazione matematica tra i due fattori. Anche se poi varia da soggetto a soggetto.

Tutte le ricerche mettono in evidenza come i cambiamenti climatici, sbalzi di temperature, piogge o bufere di neve, comportano un aumento del dolore. I più colpiti sono quelli che soffrono di reumatismi e artriti varie. Ma le patologie indotte sono varie: mal di denti, testa, schiena, e poi ancora dolgono vecchie cicatrici e fratture mai del tutto guarite. La ragione precisa non è ancora stata individuata, anche se la teoria più comune riguarda la pressione barometrica: questa scende quando arriva il maltempo e in questo modo va a influire sulla pressione sanguigna esercitando una forza inusuale sulle articolazioni.  



Gli studi sulle cavie animali aggiungono prove. E non è solo una questione di previsioni del tempo, il clima ha un'incidenza diretta sulla nostra salute. Secondo una ricerca della Società europea di cardiologia, che ha passato al setaccio 16mila pazienti, il freddo aumenta i rischi di infarto: ogni 17 gradi Fahrenheit le probabilità salgono del 7%. Influenze negative le possono avere anche l'esposizione al vento e gli sbalzi di pressione atmosferica che mandano in tilt l'ipotalamo (che controlla la nostra temperatura corporea).

Altri studi hanno collegato i cambiamenti di temperatura, umidità o pressione barometrica al dolore da artrite reumatoide, osteoartrite, così come il mal di testa, mal di denti, dolore mandibola, dolore delle cicatrici, mal di schiena, dolore pelvico, fibromialgia, nevralgie del trigemino.

I ricercatori non comprendono tutti i meccanismi coinvolti nel dolore e correlati alle condizioni climatiche, ma una teoria principale sostiene che la pressione barometrica che scende e che precede l'arrivo del maltempo alteri la pressione all'interno delle articolazioni.

Molti malati affermano che le loro articolazioni sono più precise delle previsioni meteo.

Ma anche l'aumento del tasso di umidità può causare il rigonfiamento delle giunture. Tendini, legamenti, muscoli, ossa e altri tessuti hanno tutti diverse densità, in modo che possano espandersi o contrarsi in modi diversi in condizioni mutevoli.




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DIGRIGNARE I DENTI

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Il digrignare i denti è un segnale di aggressività trattenuta.

Da un punto di vista psicosomatico il digrignare i denti è un tentativo inconscio di scaricare un surplus di tensione psichica, una quota di ansia o aggressività che si è accumulata durante la giornata e che il soggetto tende a non esprimere. Le emozioni sono negate e vengono messe a tacere durante il giorno per poi ripresentarsi in un contesto più controllato e meno pericoloso: il sonno.

Chi digrigna i denti tende a rimuginare, ha difficoltà a dire di no, preferisce reprimere la rabbia che prova per paura di esagerare o per non attivare sensi di colpa. Il serrare le mascelle è indice di aggressività trattenuta e durante la notte chi soffre di bruxismo"simula" l'attacco verso i presunti nemici.

Il bruxismo consiste nel serrare e stringere i denti in modo ripetuto prevalentemente di notte, ma anche di giorno o  per tutto l’arco della giornata, con un’intensità anomala. Le arcate dentarie normalmente non si dovrebbero mai toccare, perché la mandibola, come tutto il resto del corpo, è soggetta alla legge di gravità e in fase di riposo dovrebbe rimanere leggermente piegata verso il basso, tenendo in tal modo i denti discosti. In condizioni normali i denti si incontrano complessivamente solo tra i 6 e i 12 minuti nelle 24 ore, durante la fase terminale della deglutizione, che avviene tra le 600 e le 1.200 volte e dura solo qualche millesimo di secondo. I denti non si toccano neanche quando mangiamo, perché nella bocca è presente il bolo alimentare.

Il bruxismo può manifestarsi in modi differenti: alcune persone stringono i denti, senza associare a tale attività altri movimenti (clenching); altri muovono la mandibola in senso orizzontale producendo uno sfregamento (grinding); altri ancora aprono e chiudono ripetutamente la bocca facendo battere i denti (tapping).

Questa contrazione involontaria della muscolatura masticatoria, definita “parafunzione” perché comporta un’anomalia di utilizzo di una parte del corpo, provoca emicranie o cefalee, rumori articolari, limitazioni del movimento mandibolare, dolore a viso, collo, spalle e torace, muscoli del viso affaticati o ingrossati, sonno disturbato e sensazione di stanchezza al risveglio, usura dentale e paradontopatia. Spesso sono presenti anche sintomi legati al sistema nervoso autonomo, come sudorazione, diminuzione della libido o tachicardia e palpitazioni notturne.

Le cause del bruxismo non sono note ma, secondo alcune ricerche, il dormire a pancia in sotto o su di un fianco, facendo gravare il peso di parte del corpo su di un lato, sbilancia la mandibola, normalmente centrata, bilanciata, con i muscoli rilassati e i denti non a contatto. Conseguentemente i denti si trovano a spingere contro gli antagonisti ad ogni deglutizione inconscia, in occlusione laterale forzata, per favorire la ricentratura mandibolare da parte dei muscoli masticatori. Ma, soprattutto, sono le condizioni di elevata tensione emotiva, di nervosismo o stati d’ansia generalizzata che possono favorire episodi di bruxismo.



L’intervento della Psicologia Psicosomatica, considerando il contesto di vita della persona (lavorativo, familiare e le relazioni sociali), mira a  comprendere l’eventuale influenza di diversi stressor nello scatenamento dei sintomi. Contestualmente, l’intervento potrà incentrarsi sul corpo, con l’impiego di test kinesiologici e naturopatici per indagare lo stato fisico dal punto di vista della diffusione dell’energia o attraverso un modello interpretativo dei sintomi corporei come la Medicina Tradizionale Cinese, per verificare la regolazione degli organi e la reattività muscolare, accertando l’eventuale collegamento tra equilibrio del corpo e insorgenza del sintomo. Per ridurre gli effetti negativi dello stress, sia fisico che psichico, potranno essere impiegate tecniche di Manipolazione Cranio-Sacrale che stimolano i fisiologici meccanismi di autoguarigione del corpo. Infine, trovare uno spazio in cui esprimere e analizzare le emozioni provate in relazione al disturbo, anche aiutandosi con quanto emerso dai test eseguiti, può essere già di per sé terapeutico e risultare fondamentale per una maggior comprensione del fenomeno.

Si tratta di un fenomeno abbastanza diffuso presso la popolazione (5-20%) e generalmente non viene avvertito dalla persona interessata. Il rumore causato dallo sfregamento dei denti, invece, può disturbare il sonno del partner di letto e talvolta può essere talmente forte da potersi udire anche in altre camere.

Alcuni studi dimostrerebbero come circa l'80 per cento dei soggetti affetti da disturbi del sonno REM sviluppino, in seguito, malattie degenerative come il Parkinson.

I fattori eziologici del fenomeno non sono noti: in alcuni casi si è notata una predisposizione familiare, talvolta si è fatto riferimento a malformazioni mandibolari o a problemi d'occlusione dentari e anche a stati psicopatologici alterati (tensione emotiva, stress, aggressività) o ad alterazioni del sistema extrapiramidale.

Generalmente al risveglio la persona non avverte nessun disturbo tranne nei casi di bruxismo intenso in cui si può avvertire una sensazione dolorosa alle mascelle o più correttamente all'articolazione temporo-mandibolare, che può indurre alla sindrome di Costen e quindi dolore all'orecchio. Il digrignamento, però, può creare dei danni a causa dell'usura della superficie masticatoria dei denti sia dell'arcata superiore che di quella inferiore e questa condizione, il più delle volte, viene notata dal dentista. Col tempo il bruxismo può produrre alterazioni importanti dei denti, che perdono dimensione verticale e più in generale lo strato di smalto, e ciò può facilitare l'insorgenza di carie. Talvolta lo smalto può essere talmente abraso da esporre la dentina, il che può velocizzare la successiva erosione. A lungo termine si possono verificare fratture o perdite dentali. Si può anche avere difficoltà ad aprire la bocca completamente e aumento della sensibilità dei denti al caldo o al freddo. È, infine, da notare che la dolorabilità dell'articolazione temporo-mandibolare, se continuativa, può produrre comparsa di cefalea o arrivare alla disfunzione articolare vera e propria.

Vengono utilizzati i bite, che possono essere duri o morbidi a seconda delle necessità, che proteggono di notte i denti dall'erosione. Tali dispositivi possono essere preparati appositamente per la persona interessata (tramite rilevazione delle impronte delle due arcate). Tali apparecchi oltre a proteggere lo smalto dall'abrasione, possono anche facilitare il ripristino di un allineamento corretto delle arcate. In alternativa, è possibile acquistare bite da banco che mediante un riscaldamento temporaneo si ammorbidiscono e si adattano agevolmente ai denti, per poi irrigidirsi una volta raffreddati.


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LA SINDROME DI STOCCOLMA

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Il 23 agosto 1973 alle ore 10:15 circa, un uomo di nome Jan-Erik Olsson di 32 anni, evaso dal carcere di Stoccolma (dove era detenuto per furto) tentò una rapina alla sede della Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e prese in ostaggio tre donne e un uomo (loro erano: Elisabeth, 21 anni, cassiera e successivamente infermiera; Kristin, 23 anni, stenografa e successivamente assistente sociale; Brigitte, 31 anni, impiegata; Sven, 25 anni assunto da pochi giorni e successivamente impiegato presso un ufficio).

Olsson chiese e ottenne di essere raggiunto dal suo amico ed ex compagno di cella, Clark Olofsson, 26 anni.

La prigionia e la convivenza forzata di ostaggi e rapinatore durò 131 ore al termine dei quali i malviventi si arresero e gli ostaggi furono rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza che nei loro confronti fosse stata posta in essere alcuna azione violenta da parte del sequestratore.

Il locale in cui i fatti si svolsero, e in cui le sei persone vissero per circa sei giorni, era simile a un corridoio, lungo circa 16 metri, largo poco più di 3,5, completamente ricoperto di moquette. La vicenda conquistò le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Durante la prigionia, come risulterà in seguito dalle interviste psicologiche (fu il primo caso in cui si intervenne anche a livello psicologico su sequestrati), gli ostaggi temevano più la polizia che non gli stessi sequestratori.
Nel corso delle lunghe sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che "avevano ridato loro la vita" e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

Proprio questo paradosso psicologico prende il nome di “Sindrome di Stoccolma”, una reazione emotiva automatica, sviluppata a livello inconscio, al trauma creatosi con l'essere "vittima". Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la “Sindrome di Stoccolma” non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La “sindrome”, rilevata e studiata poi in tutto il mondo proprio a partire dai fatti di Stoccolma (da cui il nome coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot), comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l'ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

In via preliminare, si consideri che nello sviluppo della "Sindrome di Stoccolma", sono stati individuati tre stadi: "il sentimento positivo dei prigionieri verso i loro carcerieri, collegato al sentimento negativo verso la polizia. Tale sentimento è spesso contraccambiato dai carcerieri. Per risolvere favorevolmente un caso con ostaggi, la polizia deve, perciò, incoraggiare e tollerare le prime due fasi, così da provocare la terza salvando in tal modo la vita del sequestrato".

La teoria di Sigmund Freud vede la personalità come concepita in tre maggiori sistemi:

Es (pulsioni libidiche inconsce) è l'espressione della spinta emotiva e istintiva dell'uomo che non tiene conto della realtà e della moralità. È insita in tale concetto la spinta verso la conservazione, o la distruzione (pulsioni di vita e pulsioni di morte);

Io ovvero il fattore di personalità. Nella persona “ben regolata”, l'Io controlla e governa l'Es, e mantiene i rapporti con il mondo esterno nell'interesse della personalità, nel suo insieme, e delle esigenze della stessa a lungo termine.

Super-io è la coscienza che detta all'Io i consigli per soddisfare le richieste dell'Es. Si sviluppa, di solito, grazie all'acquisizione di “ideali” e “proibizioni”, genetici o formatisi nelle fasi dell'infanzia.

I contatti con la realtà sono, pertanto, compiti dell'Io che risulta così, in una personalità sana, dinamico e pieno di risorse. Una di tali risorse, secondo Freud, è quella legata ai meccanismi di difesa da idee insopportabili o dolorose, o dagli effetti di queste. Quando l'individuo è minacciato, sarà dunque l'Io a dover affrontare la maggior quantità di stress onde consentire alla personalità di continuare a funzionare anche durante esperienze dolorose quale, ad esempio, quella di trovarsi nella condizione di ostaggio di un individuo armato; in un caso così tragico, l'ostaggio vuole sopravvivere e l'Io si pone, pertanto, alla ricerca dei mezzi per riuscirvi. Il meccanismo di difesa più frequentemente notato è quello della “regressione” ovvero il ritorno a un livello di maturità inferiore e meno aderente alla realtà comportamentale e di esperienza che si sta vivendo. Altro meccanismo difensivo è la “identificazione”, che permette all'Io di sfuggire all'ira e al danno potenziale che potrebbe essergli inflitto dal “nemico”.

Entrambi tali meccanismi entrano in funzione nella "sindrome": l'ostaggio si “identifica” nel carceriere per paura, e non certo per affetto, e "regredisce" a uno stadio infantile inferiore a quello di un bimbo di cinque anni. L'ostaggio si trova in una situazione di estrema dipendenza dal carceriere esattamente come il bambino dipendeva totalmente dalla figura paterna, o comunque genitoriale, che rappresentava controllo e sicurezza.

Se alla "famiglia" sovrapponiamo il microcosmo "ostaggio-carceriere"è facile comprendere come la polizia che punta le armi, o comunque pone in essere azioni aggressive, verso il malvivente, di fatto le punta anche contro l'ostaggio che vede nel carceriere, armato, l'unico che possa concretamente difenderlo trasformandolo, perciò, in una sorta di "eroe positivo". A ben guardare, tale azione offensiva è, in realtà, l'unico sistema di difesa che si propone e il rapinatore si trova, così, legato ad altri individui, in genere a lui sconosciuti, che finiranno per simpatizzare con lui e, in alcuni casi, addirittura a compenetrarsi nei suoi problemi, comprendendo e accettando le motivazioni che lo hanno spinto al gesto che ormai li lega e li pone dinanzi al pericolo, comune, della morte.

Dall'altra parte le forze di polizia, il cui scopo precipuo è aiutare l'ostaggio, sono palesemente in difficoltà, incerti sul da farsi e sempre bisognevoli di ricorrere ad autorizzazioni sovraordinate per qualunque richiesta venga loro rivolta; ciò contribuisce a esaltare, agli occhi delle vittime, la figura del sequestratore che, invece, appare sicuro di sé, deciso, che dimostra di avere idee chiare che trasforma in condizioni precise e sa palesare minacce concrete.

L'ostaggio reagisce come può all'estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la “negazione”. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.



La comparsa della sindrome dipende anche dalla personalità del sequestrato. Infatti più egli ha un carattere dominante, meno sarà predisposto nell’incorrere nella sindrome stessa.
Di solito la sindrome di Stoccolma si manifesta in personalità poco forti e non ancora totalmente strutturate, come quelle dei bambini o degli adolescenti. La sindrome può avere una durata variabile e comporta alcuni effetti psicologici, come, per esempio, disturbi del sonno, incubi, flashback, fobie e depressione.
Per la risoluzione di questi disturbi si deve ricorrere alla psicoterapia in associazione alle cure farmacologiche. In questo modo si può curare la sindrome di Stoccolma, una vera e propria sindrome vittima-carnefice.

La sindrome di Stoccolma si manifesta soprattutto quando la vittima percepisce che la sua sopravvivenza è legata al sequestratore. Inizialmente il soggetto prova uno stato di confusione e di paura per la situazione in cui si ritrova.
Dopo aver superato il trauma iniziale, comincia a cercare la soluzione per resistere alle difficoltà. Man mano che va passando il tempo, la vittima si rende conto che la sua vita dipende dal carnefice e sviluppa un meccanismo psicologico di attaccamento nei suoi confronti, per poter evitare di morire.
Inoltre la vittima comincia ad identificarsi con il carnefice, inizia a comprendere le sue motivazioni e finisce col tollerare le violenze subite. Così facendo, elimina anche il rancore che dovrebbe provare verso l’aguzzino. Allo stesso tempo da parte del rapitore si mette in atto un feedback positivo, che porta alla garanzia di maggiore sopravvivenza per la vittima.
A parte i disturbi psicologici connessi, non si può parlare di veri e propri sintomi della sindrome di Stoccolma. Più che altro essa si riconosce dai sentimenti positivi della vittima verso il rapitore e dai sentimenti negativi manifestati verso chi cerca di andare contro l’aguzzino, concependolo come tale.
Il rapporto che si instaura tra la vittima e il carnefice, anche se apparentemente è di affetto, non porta a nessun vantaggio, a differenza delle vere relazioni amorose e durature, alleate della salute mentale.

La sindrome di Stoccolma si sviluppa inconsciamente e in modo involontario.
La strategia è un istinto di sopravvivenza che si sviluppa come tentativo di sopravvivere in una situazione pericolosa.

Ogni situazione in cui una persona sviluppa la sindrome di Stoccolma è diversa. Molte persone non sono state vittime di un rapimento, ma possono aver vissuto un abuso.

Ricordare che la persona amata ha dovuto affrontare un’ardua scelta: la famiglia o quella situazione. Poiché la famiglia era minacciata, la vittima ha imparato a scegliere il rapitore e ha ferito i sentimenti dei famigliari
Più si mette la vittima sotto pressione, più difficile sarà per lei resistere, soprattutto nei casi di abuso o di violenza domestica sulle donne
Rimanere in contatto con la persona amata durante il rapporto di abusi o il recupero. Mantenere le comunicazioni il più possibile
Ricordare alla persona amata che le sue decisioni sono pienamente sostenute e che la famiglia la ama, qualsiasi cosa succeda.
Se la persona amata inizia una relazione con il rapitore / maltrattatore, ricordare che potrebbe non essere pronta per un aiuto e che sta semplicemente considerando le opzioni.





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CANNE E ADOLESCENTI

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La marijuana è stata associata ed effetti benefici fin dalla notte dei tempi usata come farmaco  in alcune terapie.

Purtroppo si tende a minimizzare i rischi sanitari del consumo di cannabis confrontandoli con quelli del fumo di sigaretta o del consumo di alcool. Fortunatamente l’opinione pubblica è stata in parte sensibilizzata sui danni da alcool e fumo, ma la marijuana non è ancora percepita come un pericolo.

La marijuana è stata usata a scopo medico fin dall’antichità. Anche ai giorni nostri c’è un forte interesse per valutare l’efficacia del farmaco a sette punte: molti degli effetti benefici devono essere ancora studiati, ma alcuni di questi sono stati correlati con il trattamento di dolore, nausea, anoressia, spasticità muscolare, disturbi del sonno.

Il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) è uno tra i maggiori principi attivi della Cannabis che appartiene alla famiglia dei fitocannabinoidi. Il THC mima gli effetti degli endocannabinoidi, che costituiscono un complesso sistema di comunicazione interneuronale, il cosiddetto sistema endocannabinoide. Che effetti provoca quest’interferenza in circuiti cerebrali così delicati e suscettibili a modificazioni? Diversi studi hanno correlato le capacità in diversi ambiti cognitivi di consumatori di marijuana rispetto a gruppi di controllo, dimostrandone un decremento della memoria, della velocità di processamento delle informazioni e dell’attenzione. Simili risultati sono emersi da questo studio condotto su adolescenti consumatori di marijuana, con chiaro impoverimento dei risultati all’aumento della quantità di dose consumata. Deficit di memoria di consumatori di questa droga leggera sono riportati da diversi studi, evidenziando inoltre un miglioramento dei risultati in condizioni di astinenza.

È stato dimostrato che l’inizio in età precoce (16 o 17 anni) del consumo di marijuana influisce negativamente su: tempo di reazione ad un compito; QI verbale, fluenza del discorso e memoria verbale; attenzione sostenuta, controllo degli impulsi e capacità di esecuzione di un compito.

Si è risvegliato un forte interesse della ricerca scientifica per studiare gli eventuali effetti dell’uso di marijuana sullo sviluppo di strutture nervose quali la materia grigia e la materia bianca del cervello. È noto infatti che durante lo sviluppo adolescenziale il cervello va incontro ad una serie di importanti cambiamenti (ad esempio si assiste ad una diminuzione del volume della corteccia cerebrale già dal sesto anno di vita, causata da una selezione delle connessioni sinaptiche da mantenere a scapito di quelle più deboli che invece vengono eliminate).

Quindi diventa molto importante capire se e come gli endocannabinoidi contenuti nella marijuana possano interferire con i neuroni (materia grigia) e il normale processo di differenziazione e sviluppo cerebrale. Secondo questo studio adolescenti fumatori di Cannabis hanno il volume di una parte del lobo frontale (corteccia prefrontale orbitale mediale destra) diminuito rispetto al gruppo di controllo non fumatore. Secondo un altro studio si è osservata una diminuzione del volume dell’ippocampo proporzionale al consumo di Cannabis. È da rilevare comunque che diminuzione del volume della corteccia prefrontale orbitale e dell’ippocampo sono stati rilevati anche in consumatori di alcol. Inoltre negli adolescenti consumatori di marijuana sono stati individuati aumenti di volume di parti del cervelletto (verme inferiore posteriore), correlato con diminuite capacità esecutive. Ulteriori risultati sono emersi in altre aree del cervello, facendo concludere che la marijuana può alterare il neurosviluppo in due modi: 1) sviluppo prematuro e/o alterazioni nei percorsi sinaptici o 2) perdita o rimodellamento del tessuto nervoso (materia grigia) associato alla tossicità relativa alla marijuana.

La materia bianca (l’insieme dei collegamenti sinaptici del cervello) gioca un ruolo fondamentale nel collegare le diverse parti dell’encefalo: affinché il suo funzionamento sia corretto è necessario mantenere la sua integrità (adeguato rivestimento mielinico, coerenza e continuità dei tratti di fibre nervose). Ancora più importante è mantenere questa integrità cerebrale nel periodo dell’adolescenza, periodo critico del neurosviluppo in cui si assiste ad un incremento della materia bianca, dovuto ad una maggiore connessione delle strutture cerebrali. Lo studio degli effetti della marijuana sullo sviluppo corretto della materia bianca sono ancora agli inizi ma si sono comunque osservati alcuni aspetti degni di nota: i consumatori adolescenti di marijuana hanno una diminuita integrità della materia bianca correlata con peggiore funzionamento neurocognitivo.

Il fumo di marijuana quando inalato, come d’altronde il fumo di sigaretta, aumenta di almeno cinque volte il valore ematico di carbossiemoglobina (addirittura di un terzo in più rispetto al fumo di sigaretta). Per continuare il paragone con il fumo di sigaretta, la boccata di marijuana ha maggior profondità, maggior volume di fumo inalato e maggior tempo prima di espirare.



Alcuni studi condotti in passato hanno mostrato che il suo consumo può avere costi sociali importanti, perché associato statisticamente a disoccupazione, assenteismo, diminuzione della produttività, nonché a un aumentato tasso di crimini e incarcerazioni.

Alcune ricerche mostrano  che gli adolescenti sono una popolazione particolarmente esposta ai rischi sanitari della cannabis, specialmente per quanto riguarda le funzioni neurocognitive: in questa età infatti, il cervello subisce una serie d'importanti mutamenti, con cui le sostanze d'abuso posso interferire notevolmente. E' stata segnalata infatti una diminuzione dell'intelligenza, della memoria, della capacità di attenzione e della capacità verbale.

Valutazioni con misurazioni standardizzate nella fascia di età 9-12 anni e 17-20 anni, l'evoluzione cognitiva con e senza gli effetti della cannabis anche in coppie di soggetti che condividono il 100 per cento del DNA, nel caso dei gemelli omozigoti, o il 50 per cento del DNA, in media, nel caso dei gemelli eterozigoti.

Gli studi sulle coppie di gemelli consentono di valutare anche gli effetti di altri fattori presenti nel cosiddetto ambiente condiviso, come la famiglia, la scuola, il quartiere di residenza, così come nell'ambiente non condiviso, come la classe scolastica o il gruppo di amici.

L'analisi di Jackson e colleghi ha rilevato che rispetto ai non consumatori di marijuana, i consumatori abituali partecipanti allo studio avevano, nel passaggio dalla preadolescenza all'adolescenza, una diminuzione significativa nelle misure della cosiddetta intelligenza cristallizzata, che riguarda la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed esperienze.

Dall'analisi, però, non è emersa alcuna correlazione di tipo dose-risposta: le dosi consumate e la frequenza del consumo, in altre parole, non risultavano proporzionali all'entità della variazione del quoziente d'intelligenza.

Questi risultati potrebbero far ipotizzare che il consumo di cannabis è in effetti un possibile fattore causale per il declino cognitivo. I dati relativi ai gemelli, tuttavia, vanno in un'altra direzione, poiché il declino cognitivo dei consumatori di marijuana non è risultato significativamente maggiore rispetto a quello dei loro gemelli. Ciò significa che vi siano fattori familiari che predispongono sia al declino cognitivo sia al consumo di marijuana negli adolescenti.



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LUCE BLU

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La luce blu può rappresentare un utile strumento per combattere la depressione invernale e l’insonnia ma può causare danni permanenti all’occhio umano.

La luce che raggiunge e penetra nell’occhio umano è suddivisa in spettro visibile, comprendente le lunghezze d’onda da ca. 380 a 780 nm, e spettro non visibile, che include la luce nell’intervallo ultravioletto (luce UV) e l’intervallo infrarosso (luce IR).
Da tempo agli esperti è noto che i raggi UV sono potenzialmente in grado di causare danni ai tessuti organici quali la nostra pelle e gli occhi; per questo motivo, utilizziamo ad esempio appositi prodotti per la protezione solare. Tuttavia, anche la luce blu-violetta può causare lesioni, soprattutto ai nostri occhi. La luce blu-violetta può avere minore energia di quella ultravioletta ma, al contrario della luce UV – la maggior parte della quale viene assorbita dalla parte frontale dell’occhio – la luce blu raggiunge la retina.

Il componente della luce nell’intervallo blu-violetto tra 380 e 500 nm è conosciuto come luce visibile ad alta energia (HEV). Le lunghezze d’onda comprese tra 380 e 440 nm sono considerate particolarmente critiche e sono ritenute tra le possibili cause della fotoretinite che comporta danni alla retina dovuti a luce incidente ad alta energia.

Secondo alcuni studi scientifici, la luce ha un effetto biologico sul nostro corpo, contribuendo tra l’altro a regolare il nostro equilibrio ormonale. L’ormone melatonina svolge un ruolo importante nella regolazione del nostro ciclo sonno/veglia; inoltre, l’energia luminosa necessaria per questo processo viene assorbita in larga misura dai nostri occhi. Un altro fattore chiave in questo processo è un fotopigmento definito melanopsina, che, come è stato dimostrato, è il più attivo nella porzione ad onde corte dello spettro visibile. Ne consegue che anche la luce blu che raggiunge la nostra retina è funzionale ad assicurare il nostro benessere psicologico; per questo motivo la fototerapia viene utilizzata con successo per trattare la depressione invernale e l’insonnia.
Inoltre, la luce UV è coinvolta nella produzione di vitamine; ne consegue anche che lo stimolo luminoso esercita un’influenza importante sul nostro metabolismo. In sintesi, il nostro corpo necessita della luce blu.

Una quantità eccessiva di luce nell’intervallo ultravioletto e blu-violetto può danneggiare l’occhio umano. Oltre a provocare un’infiammazione dolorosa della congiuntiva e della cornea, può anche causare danni al cristallino e, in particolare, alla retina (degenerazione maculare).
Questo è il motivo per cui è così importante indossare occhiali da sole con una protezione del 100% contro i raggi UV in condizioni di intensa luce solare, soprattutto in presenza di forte abbagliamento, come su uno specchio d’acqua o sulle piste da sci.

Dai diodi ad emissione luminosa (LED) alla luce allo xeno, dalle lampadine a risparmio energetico alla radiazione elettromagnetica degli schermi: tutte le “nuove sorgenti luminose”, progettate per migliorare e facilitare la nostra vita, contengono una proporzione di luce blu superiore a quella delle tradizionali lampadine del passato. La differente composizione spettrale della luce comporta un’esposizione ad una quantità di luce blu molto più elevata rispetto a prima.
Finora non sono stati effettuati studi scientifici che rispondano al quesito se utilizzare display di computer o fissare queste nuove sorgenti luminose per tempi prolungati possa comportare danni alla retina. Tuttavia, è importante tenere presente che trascorrere un’ora all’aperto in una normale giornata nuvolosa espone i nostri occhi alla luce blu 30 volte di più che trascorrerla in un ambiente chiuso, davanti ad uno schermo.



Tablet, smartphone e altri dispositivi digitali dotati di display non hanno modificato solamente lo spettro luminoso al quale siamo esposti, bensì anche le nostre abitudini visive. È importante riconoscere che trascorriamo molto più tempo guardando “da molto vicino rispetto al passato. La ragione è che spesso la luminosità dello sfondo è eccessivamente ridotta. Il problema riguarda anche i bambini: “Miopia scolastica è il termine che indica la crescente tendenza alla miopia rilevata tra i bambini quando iniziano a frequentare la scuola.

Se non dedichiamo tempo sufficiente alla visione per lontano, i nostri occhi hanno poche opportunità di rilassarsi e, sostanzialmente, “disimpariamo la capacità di accomodare rapidamente a varie distanze. Ne deriva il cosiddetto affaticamento degli occhi dovuto all'uso di dispositivi digitali. Inoltre, la nostra cornea viene idratata meno frequentemente dal liquido lacrimale, poiché quando fissiamo un display digitale è naturale battere le palpebre meno spesso. Le conseguenze possono essere affaticamento e stress degli occhi. Nel caso peggiore può venire addirittura compromessa la visione.

L'occhio umano è naturalmente predisposto per difendersi dagli effetti dannosi della luce: la pupilla si restringe, le palpebre si chiudono, lo sguardo si distoglie automaticamente per evitare che la luce entri troppo intensamente nella retina, provocandone il danneggiamento. Ma esporci a lungo ai dispositivi elettronici può compromettere queste difese naturali e peggiorare gli effetti.

I rischi legati alla vista non sono comunque gli unici. È scientificamente provato che la luce blu sopprime la produzione di melatonina, un ormone prodotto dalla ghiandola pineale preziosissimo per la regolazione dei cicli del sonno. La sua inibizione può causare insonnia e i disturbi a essa collegati. Meglio allora perdere l'ultimo post di Facebook o un messaggio su Whatsapp e guadagnare in salute, spegnendo lo smartphone dopo cena.

Sicuramente, come prima cosa, lascia fuori dalla camera da letto smartphone, tablet, notebook e tutto ciò che è in grado di emettere luce blu: meglio perdere l’ultimo aggiornamento di Facebook e guadagnarci in salute.

Può essere utile anche rivolgere frequentemente lo sguardo lontano, anche mentre lavori al computer, facendo così riposare gli occhi. Mantieni, inoltre, sempre una giusta distanza dai dispositivi digitali; deve essere pari almeno alla lunghezza dell’avambraccio.

Altri comportamenti che puoi adottare per ridurre i rischi legati all’esposizione della luce blu sono: regolare la luminosità dello schermo, cambiare il colore di sfondo da un bianco brillante a grigio chiaro, pulire spesso gli schermi, non posizionare lo schermo verso la finestra, montare filtri di riduzione del bagliore sul display, aumentare la dimensione dei caratteri per facilitare la lettura e fare controlli regolari dall’oculista.



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INSETTI ALIENI

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Spesso, in questi anni, siamo stati testimoni diretti dei cambiamenti climatici, di cui continuiamo a farne le spese. Il detto "non esistono più le mezze stagioni" lo hanno imparato a memoria anche le nuove generazioni ormai. E adesso il "pericolo" arriva anche dagli insetti.

Insetti sconosciuti e vespe 'aliene' provenienti da Cina e Medio Oriente: 'incontri' sempre più frequenti anche in Italia, a causa del clima 'pazzo' e delle temperature elevate anche fuori stagione, e che rappresentano un pericolo. Ogni anno sono 5 milioni gli italiani punti da un'ape, vespa o calabrone e circa 400.000 i casi di reazione allergica o shock anafilattico da puntura di insetto.

Gli imenotteri 'stranieri', avvertono gli allergologi, accrescono i rischi, perché con l'incremento delle popolazioni di insetti non soltanto aumenta la probabilità di essere punti, ma soprattutto cresce il pericolo di sensibilizzazione a nuove specie velenifere che potrebbero anche dare reazioni crociate con le autoctone. Tuttora, si contano circa 50 decessi l'anno da puntura di insetto, ma i casi fatali potrebbero aumentare proprio per colpa degli insetti 'migranti'. La cura, affermano gli esperti, è però possibile, almeno nei confronti delle specie note, e passa da una terapia semplice come la vaccinazione: il vaccino per il veleno degli imenotteri è efficace nel proteggere il 97% degli allergici, ma ad oggi soltanto un paziente su 7 lo sceglie.



L'aumento della temperatura ha dunque effetti su diverse specie: "La Vespa orientalis per esempio, originaria di Sud Est europeo e Medio Oriente e presente soprattutto in Sicilia, sta risalendo la penisola perché trova un habitat proficuo. Peraltro le temperature più elevate possono anche modificare il comportamento degli animali. Così, i nidi di vespa si stanno ingrossando e possono diventare perenni anziché annuali - spiega Walter Canonica, presidente SIAAIC -. E nuove specie vengono portate pure attraverso il traffico di persone ed i viaggi: dalla Cina, in questo modo, è arrivata la Vespa velutina che si sta espandendo ed è già presente in Italia, in Piemonte e Liguria. Le nuove specie non sono più aggressive di quelle italiane, ma per il semplice fatto di essere nuove implicano un incremento dei rischi per gli allergici: la composizione del veleno, simile ma non identica, può farci trovare disarmati per la diagnosi e le terapie". Non va dunque sottovalutato il fatto che sono almeno 400.000 gli allergici agli imenotteri che rischiano uno shock grave: per evitarlo, dovrebbero rivolgersi all'allergologo per una terapia desensibilizzante. Recenti sentenze, ricorda Gianrico Senna, vicepresidente SIAAIC, "hanno già obbligato alcune Asl a somministrare gratis il vaccino ai pazienti: è un salvavita, e dovremmo perciò garantirlo a tutti gli allergici agli insetti".



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PERCHE' GLI INSETTI PUNGONO

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Le zanzare attaccano di più all’alba ed al tramonto. Questi sono i due momenti del giorno in cui la luce del sole è diretta e non emana molto calore. Per questo, ne approfittano per rifornirsi di alimenti.

L’attività delle zanzare è piuttosto intensa prima di poter trovare una vittima che si adatti alle loro necessità. Per questo motivo, ispezionano molto bene il territorio prima di agire.

Sicuramente vi sarà capitato di udire vicino all’orecchio il loro ronzio. Questo vuol dire che vi sta analizzando per sapere se siete una preda degna.

Nella stessa stanza o nello stesso spazio possono esserci persone letteralmente divorate dalle zanzare ed altre che non riportano nemmeno un morso. Diversi gruppi di scienziati hanno cercato di scoprire perché accade questo e quali sono le motivazioni che portano l’insetto a pungere alcuni piuttosto che altri.

Recenti ricerche hanno scoperto che almeno il 20% degli individui presenta caratteristiche ben precise che li rendono più allettanti di altri alle punture di zanzare.

Secondo uno studio condotto in Gran Bretagna le sostanze presenti nel sudore, che ciascuno di noi ha in quantità diversa, sono i fattori principali a far avvicinare o meno le zanzare. Acido lattico, acido urico e ammoniaca, tutte presenti nel sudore, vengono localizzati con grande precisione dalle zanzare.

Un altro fattore che attira le zanzare è l’anidride carbonica, che il nostro organismo produce attraverso la respirazione e con la traspirazione. Grazie ad alcuni recettori che si trovano nelle loro mascelle le zanzare possono percepire la presenza di anidride carbonica emessa da qualcuno che si trova fino a 50 metri di distanza. Ne consegue che gli organismi che producono CO2 in maggiore quantità saranno bersagli ideali. Questo spiegherebbe per esempio perché le persone in sovrappeso risultino più colpite, dal momento che hanno uno scambio ossigeno/anidride carbonica maggiore.

Il metabolismo del corpo e la chimica sono due fattori distintivi che giocano un ruolo fondamentale per comprendere il grado di attrattività per le zanzare. Uno studio pubblicato sul Journal of American Medicine ha stabilito che bere una lattina di birra aumenta in maniera significativa l’attacco da parte di questi fastidiosi insetti. La ragione è dovuta al fatto che le zanzare sono attratte dal particolare odore del corpo che viene modificato dall’alcol.



Non ci sono evidenze scientifiche definitive, ma che l’aglio tenga lontane le zanzare e anche altri insetti, come ad esempio le zecche, è stato confermato da molteplici studi. Secondo i ricercatori dell’Università della Florida gli alimenti con più alte concentrazioni di vitamine del gruppo B (B1 e B6) e di vitamina C hanno il potere di alterare il nostro sudore e renderci meno invitanti.

La femmina assume in genere una quantità di sangue circa uguale al suo peso, ovvero 2-3 milligrammi. Secondo uno studio effettuato dai ricercatori dell’Institute for Biological Pest Control, la genetica svolge un ruolo importante nel determinare se siete una calamita per le zanzare, che preferiscono il sangue del gruppo 0 più di quello del gruppo B e circa il doppio di quello del gruppo A. Questi insetti considerano infatti il tipo zero più gustoso di qualsiasi altro tipo di sangue. Secondo lo stesso studio, infatti, emettiamo una sostanza che permette l’identificazione del tipo di gruppo sanguigno prima di essere morsi dalle zanzare.

Proprio perché percepiscono le sostanze contenute nel sudore, un’attività fisica come la corsa all’aperto aumenta del 50% il rischio di essere morsi. Anche la temperatura corporea fa dunque la sua parte nell’attirare l’insetto. Non a caso la zanzara che diffonde la malaria punge le persone febbricitanti, quando il protozoo causa della malattia è al massimo di presenza nel sangue.

Gli indumenti che indossiamo possono aumentare o diminuire il rischio di essere morsi. In uno studio che ha confrontato varie tonalità, i ricercatori hanno segnalato risultati molto interessanti che hanno rivelato come le zanzare sono attratte dai colori scuri. Prediligono nell’ordine: nero, rosso, grigio e blu; richiamano invece meno la loro attenzione il kaki, il verde e giallo.

La zanzara vive dalle tre alle cinque settimane, durante le quali produce altrettanti cicli di uova: punge perciò dalle tre alle cinque volte in tutto. Secondo l’American Mosquito Control Association la zanzara è 500 volte più attiva con la luna piena. I suoi attacchi avvengono all’alba e al tramonto, con le femmine che sono in grado di migrare per 40 miglia per procacciarsi del cibo.

La temperatura corporea delle donne in gravidanza è più alta e le zanzare di conseguenza  attaccano con una frequenza due volte superiore rispetto ad una donna che non aspetta un bambino. La pancia di una donna in gravidanza è di 1°C più calda del resto del corpo e questo fa sì che l’organismo produca più sudorazione, attirando le zanzare.

Anche concentrazioni elevate di steroidi o colesterolo sulla superficie della pelle, secondo uno studio dell’Università della Florida, costituiscono un elemento di attrattiva particolare per le zanzare.



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CACHESSIA

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La cachessìa o sindrome da deperimento è una perdita di peso, atrofia muscolare, stanchezza, debolezza e significativa perdita di appetito in un individuo che non sta attivamente cercando di perdere peso. La definizione formale della cachessia è una perdita di massa corporea che non può essere invertita con il nutrimento: anche se l'individuo che ne soffre assumesse più calorie, la massa corporea magra verrebbe comunque persa, il che sta ad indicare la presenza di una patologia primaria.

La cachessia si verifica nei pazienti con tumore, AIDS, malattia di Alzheimer (stadio avanzato), broncopneumopatia cronica ostruttiva, sclerosi multipla, insufficienza cardiaca, tubercolosi, polineuropatia amiloide familiare, avvelenamento da gadolinio, avvelenamento da mercurio (acrodinia) e carenza ormonale.

Il deperimento dell'organismo si accompagna quindi a edemi (per ipoproteinemia ed altre alterazioni dell'equilibrio idroelettrolitico) astenia, dispnea, anoressia, febbre, alterazioni del sensorio e agitazione psicomotoria.

Si tratta di una condizione grave e coloro che la sperimentano vedono aumentare drammaticamente la propria probabilità di morte per la malattia di base. La cachessia può essere un segno di varie patologie sottostanti; quando un paziente si presenta con questa condizione, un medico generalmente prende in considerazione la possibilità della presenza di un tumore, di una acidosi metabolica (diminuzione della sintesi proteica e aumento del catabolismo proteico), di alcune malattie infettive (ad esempio, la tubercolosi e l'AIDS), la pancreatite cronica e alcune malattie autoimmuni o una dipendenza da anfetamine. La cachessia indebolisce fisicamente i pazienti ad uno stato di immobilità derivante dalla perdita di appetito, dall'astenia e dall'anemia e la risposta al trattamento standard è generalmente deludente. La cachessia include la sarcopenia come parte della condizione.

La cachessia si riscontra spesso nei pazienti oncologici in fase terminale e in questo contesto prende il nome di cachessia neoplastica. I pazienti con insufficienza cardiaca congestizia possono accusare una sindrome cachettica. Inoltre, una comorbilità di cachessia può essere vista nei pazienti che presentano una delle malattie classificate tra le malattie polmonari croniche ostruttive. La cachessia è anche associata con le fasi avanzate della insufficienza renale cronica, con la fibrosi cistica, la sclerosi multipla, la malattia del motoneurone, la sindrome di Parkinson, la demenza, l'AIDS e altre malattie progressive e degenerative.

Il meccanismo esatto con cui queste malattie causano la cachessia è poco conosciuto, ma vi è probabilmente un ruolo per le citochine infiammatorie, come il fattore di necrosi tumorale-alfa (che è anche soprannominato 'cachessina'), per l'interferone gamma e l'interleuchina 6, così come i fattori proteolitici secreti dal tumore.

Sindromi correlate includono kwashiorkor e marasma, anche se queste non sempre hanno una malattia causale sottostante e sono più spesso sintomi di una grave malnutrizione.

Coloro che soffrono di disturbi alimentari, come l'anoressia nervosa, sembrano avere livelli plasmatici elevati di grelina. Livelli di grelina sono riscontrabili anche nei pazienti con cachessi indotta da un tumore.

Il trattamento o la gestione della cachessia dipende dalle cause, dalla prognosi generale e da altri fattori legati al paziente. Se possibile, ed accettabile, le cause reversibili e le patologie che l'hanno causata, vengono trattate. Le terapie non farmacologiche che hanno dimostrato di essere efficaci nella cachessia indotta da un tumore includono una consulenza nutrizionale, interventi psicoterapeutici e l'allenamento fisico.

In Europa, il trattamento raccomandato è il risultato di una combinazione di nutrizione, terapia farmacologica e non farmacologica. L'assunzione di steroidi può essere utile nella cachessia neoplastica, ma il loro utilizzo è raccomandato per una durata massima di 2 settimane al fine di evitare effetti collaterali. I progestinici come l'acetato di megestrolo sono un'opzione per la gestione della cachessia refrattaria che si presenta con l'anoressia come sintomo importante. Altri farmaci che sono stati utilizzati o sono oggetto di indagine nella terapia per la cachessia, ma per cui mancano prove conclusive che ne stabiliscono efficacia o la sicurezza, e quindi non sono generalmente consigliati, comprendono: talidomide e antagonisti delle citochine, i cannabinoidi, gli acidi grassi omega-3, tra cui l'acido eicosapentaenoico (EPA), ifarmaci non steroidei anti-infiammatori,
procinetici,la grelina e del recettore della ghrelina agonisti,modulatori selettivi del recettore degli androgeni, ciproeptadina, idrazina.
In alcuni paesi è stato consentito l'uso della cannabis medica.

Non vi sono prove sufficienti per sostenere l'uso di olio di pesce per il trattamento della cachessia associata ad un tumore in uno stadio avanzato.



La terapia della cachessia si pone l'obiettivo di calcolare e fornire al paziente apporti nutrizionali idonei a coprire il fabbisogno energetico, proteico, glucidico, lipidico, vitaminico e idroelettrolitico, tenendo ovviamente conto delle condizioni generali, dello stato nutrizionale, della patologia che l'ha provocata e di eventuali malattie metaboliche preesistenti (diabete, gotta, cirrosi, insufficienza renale).
In relazione alle condizioni del paziente, la nutrizione potrà avvenire per OS, per sonda naso-gastrica o naso-enterica o per via parenterale.

La cachessia può avere un'origine esogena o endogena. La più tipica forma esogena è la cachessia acuta da malnutrizione, in cui un grave dimagramento segue un digiuno assoluto di lunga durata; la morte può sopravvenire quando il calo ponderale è di entità tale da raggiungere il 40% del peso normale. I sintomi e i segni sono rappresentati da sete intensa, oliguria, acetonuria, anemia, riduzione dei livelli ematici di glucosio, azoto ureico e colesterolo, diminuzione della temperatura corporea o febbricola, abbassamento del metabolismo basale e del quoziente respiratorio, scomparsa del tessuto adiposo sottocutaneo, ipotrofia e ipotonia muscolari, emaciazione dei tratti del viso, edemi carenziali, dispnea da sforzo, apatia, decubiti.
Una forma abbastanza diffusa è quella che colpisce soggetti molto anziani, al di fuori di qualsiasi affezione manifesta, e si traduce unicamente in un'atrofia senile di tutti gli organi (cachessia senile). Altre particolari eziologie sono quelle rachitica, scorbutica, pellagrosa, mercuriale, saturnina, puerperale, uremica, ma le corrispondenti forme di cachessia, assai diffuse in passato, sono oggi, almeno nei paesi sviluppati, molto rare, per le migliorate condizioni igieniche generali e di nutrizione della popolazione, e per le accresciute possibilità terapeutiche. Nell'ambito delle cachessie cosiddette neurogene o psicogene possono essere inquadrate le forme estreme di anoressia nervosa.




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SARCOPENIA

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Il termine sarcopenia riguarda l'insorgenza di una perdita di massa muscolare.

Sarcopenia è un termine coniato da Irwin Rosenberg (Senior Scientist Jean Mayer SDA HNRCA Tufts University Boston, MA) nel 1988, per definire la perdita di massa e funzione muscolare con l’età. Può essere identificata con la situazione metabolica per cui il muscolo, che è uno dei più importanti consumatori di energia dell’organismo (non solo perché rappresenta circa il 40% del peso corporeo ma anche per la capacità metabolica unitaria) perde, a partire da un’età intorno ai 45 anni e con una pendenza mano a mano più alta, la capacità di produrre e consumare energia con lo stesso rate che utilizzava prima: questa situazione è, sicuramente, il più importante fattore di accumulo di grasso corporeo in eccesso. Se poi si considera che la diminuzione della capacità fisica, porta inevitabilmente ad una diminuzione anche dell’attività, allora, in assenza di adeguati ricondizionamenti alimentari, il rapporto massa grassa/massa magra tende inevitabilmente a lievitare in modo esponenziale.

Le motivazioni che inducono tale patologia sono molteplici. La sarcopenia può manifestarsi in soggetti sedentari a seguito di un lungo periodo di inattività fisica oppure può accentuarsi semplicemente con l'incorrere della terza età. Secondo una corrente di studi, la sarcopenia non è una conseguenza inevitabile dell'età, ma si verifica in condizioni di stress ossidativo crescente nel tempo con la formazione di radicali liberi.

Per quanto riguarda la sarcopenia legata alle terza età nel sesso maschile è correlata al calo della produzione di testosterone che ha effetti anabolizzanti, in particolare sul metabolismo proteico.

Nella sarcopenia la perdita di massa muscolare e la conseguente perdita di forza sono accompagnate anche da una minore funzionalità dei muscoli.

Con il trascorrere degli anni di vita di un soggetto standard (considerato in qualità di campione d'esame) la perdita di massa muscolare avanza di pari passo con la perdita di forza muscolare che può essere delle stesse proporzioni se non addirittura maggiore. A 50 anni di età molte persone hanno già perso circa il 10% della loro massa muscolare e a 70 anni ne avranno perso circa il 70%.

La sarcopenia inizia a comparire intorno a 40-50 anni, essa accelera la sua presenza intorno ai 75 anni. Il segno più evidente è rappresentato dalla atrofia delle fibre fast-twitch (FT), quelle che vengono reclutate durante il lavoro anaerobico di alta intensità; per questo motivo non tutti i muscoli presentano lo stesso grado di perdita tessutale. Ovviamente questo stato funzionale trova il suo esordio e uno sviluppo più appariscente presso i sedentari poiché l’attività fisica pregressa costituisce un elemento di protezione, anche se relativa, rallentandone sia l’insorgenza che lo sviluppo. La perdita di massa e la minore efficacia degli enzimi muscolari si traducono in un calo del picco di forza isocinetica, della massima velocità di estensione e del massimo sforzo isometrico che, ancora conservato a 45 anni, decresce del 25% a 65 anni, del 35% a 70 anni, mentre nelle decadi successive la perdita di forza risulta ancora più marcata ed accelerata. Questo porta a far si che il 40% delle donne tra i 55-64, il 45% tra i 65-74 e il 65% tra i 75-84 anni non è più in grado di sollevare un peso di 4.5 kg.

Negli ultimi anni sono state proposte molte ipotesi sulle cause della Sarcopenia che possono essere:

Delezione mitocondriale: Un errore di replicazione del DNA mitocondriale (mtDNA), potrebbe essere la causa di una delezione significativa del genoma del mitocondrio; il genoma più corto si replica più velocemente inducendo la formazione di mitocondri malfunzionanti o del tutto inattivi. A questo stato di cose il nucleo risponde up-regolando la formazione di mitocondri e ciò porta, per i motivi detti sopra, all’accumulo di mitocondri a genoma corto inattivi. Questo provoca un deficit energetico e l’atrofia della fibra. La fibra atrofica necrotizza e viene sostituita da infiltrazioni di tessuto connettivo e adiposo.
Alterazione della sintesi proteica: Qualunque evento che porti ad una diminuzione della massa muscolare con conseguente diminuzione della capacità di generare forza da parte del muscolo scheletrico, rappresenta un condizionamento negativo della capacità funzionale della fibra scheletrica che prende il nome di atrofia: una situazione estrema la cui insorgenza è sempre negativa ed alcune volte rappresenta, per il muscolo ma non solo per esso, una strada senza ritorno. In linea generale lo stato atrofico, pur essendo legato ad una pluralità di fattori, è sempre la conseguenza, se la disponibilità di nutrimenti è adeguata, di uno sbilanciamento tra la capacità delle fibre del tessuto di portare a termine una corretta sintesi delle proteine e la componente degradativa delle stesse.
Perdita della capacità riparativa delle cellule satelliti: La proliferazione e la fusione delle CS è regolata da specifici fattori di crescita proteici (principalmente IGF-1, mIGF-1, HGF) ma è anche influenzata da ormoni quali GH, Testosterone, Estrogeni). La secrezione di GH da parte dell’ipofisi anteriore agisce sul fegato per stimolare sintesi e release di IGF-1 che agisce tramite recettori di superficie posti sulla membrana delle CS, facendole proliferare come miociti e quindi differenziare in miotubi.



Sembra piuttosto ovvio, comunque, osservare che la sarcopenia non può essere considerata un semplice processo legato da una relazione di causa effetto con uno specifico fattore etiologico; piuttosto è necessario considerarla un evento multifattoriale. Sotto quest’ottica, probabilmente, si percorre un cammino più corretto ma nel quale, però, si rischia di confondere gli effetti (alterazione del sistema di trasporto degli elettroni, alterazioni ormonali e/o dei fattori di crescita che portano ad una alterazione della sintesi proteica, perdita della capacità riparativa delle cellule satelliti, ecc…) con le cause (orologio biologico, accumulo di radicali liberi, rimodellamento anterogrado, ecc.) Il problema è che siamo ben lontani dal definire cause e specificità del processo e che, molto probabilmente, ancora qualche anno dovrà passare perché il problema possa essere in qualche modo avviato a soluzione. Ovviamente, considerando sia il costo umano con la grave situazione che lega gradi consistenti di sarcopenia con stati di parziale o totale inabilità che sociale (costo per le strutture sanitarie), ogni sforzo deve essere compiuto per far sì che, almeno la sintomatologia più allarmante (abbassamento della soglia al dolore, stati preinfiammatori, depressione, ecc…) venga in qualche modo controllata.

La senescenza è associata con molte modificazioni dei livelli ormonali inclusi quella drastica dei livelli plasmatici del GH (soprattutto in rapporto con le variazioni indotte dall’esercizio fisico) e quella seppur meno evidente di Testosterone (T) e IGF-I. Una diminuzione della presenza di questi ormoni può essere collegata allo sviluppo della Sarcopenia per la loro azione diretta sulla regolazione della sintesi delle proteine: GH e T sono richiesti per il mantenimento del bilancio proteico (GH anche per la sintesi epatica di IGF-I) e IGF-I controlla direttamente la sintesi delle proteine con un’azione specifica per quanto riguarda quelle dei filamenti (actina e catena pesante della miosina). Anche se è certo il ruolo giocato dagli ormoni indicati sulla sintesi delle proteine, molti dubbi derivano dai risultati ottenuti utilizzando la loro somministrazione come terapia anti sarcopenica. Un esempio vale per tutti: la somministrazione, anche in dosi massice, di GH non ha prodotto risultati di particolare apprezzamento soprattutto per quel che concerne il ripristino della massa muscolare persa con l’età. Un altro tentativo di tipo terapeutico-educativo è il frutto di una scoperta fatta 70 anni fa: nei ratti sottoposti a restrizione calorica, attraverso una dieta spartana ma bilanciata, si osserva un aumento di circa il 50% della lunghezza della vita media ed una riduzione molto significativa dell'incidenza di sarcopenia e malattie tipicamente geriatriche, come il cancro, le malattie cardiovascolari, l'osteoporosi, ecc. Questi effetti si riscontrano su molti organismi modello per la biologia, ma purtroppo questo regime di restrizione calorica è insostenibile, perché porta quasi alla fame. Ebbene, alcuni studiosi della Harvard Medical School di Boston hanno individuato delle molecole che simulano la restrizione calorica e la più potente di queste molecole è il resveratrolo , contenuto tra l'altro nel vino rosso. Purtroppo però il resveratrolo naturale non è molto stabile: si degrada facilmente in presenza di ossigeno e perde così la sua efficacia. Non è proponibile, perciò, il suo utilizzo come agente terapeutico per combattere la sarcopenia anche se la presenza, in dosi consone (uno-due bicchieri al giorno) di vino rosso nella dieta potrebbe contribuire in maniera significativa a ridurre gli effetti negativi dell’accumulo di radicali liberi nell’organismo. Una dieta ipocalorica è, comunque, indicata e non solo in quei soggetti anziani che presentano tendenza ad aumento di massa grassa e diminuzione di massa magra. D’altro canto in soggetti molto anziani con scorrette abitudini alimentari, inappetenza e/o patologie croniche, che presentano quindi un insufficiente apporto di nutrienti, si deve prendere in considerazione l’opportunità di introdurre supplementazioni dietetiche che includano vitamina B6, B12, Calcio, Vitamina D ed aminoacidi. Migliori risultati, qualche volta così significativi da risultare in un deciso miglioramento sia delle condizioni locali (recupero muscolare) che di quelle generali (inabilità ridotta), si ottengono somministrando programmi di attività fisica come terapia . Il primo intervento terapeutico da considerare, consiste nell’introduzione di un corretto programma di allenamento. Non tutte le forme di esercizio hanno la stessa efficacia nel promuovere un aumento di forza muscolare. Gli esercizi di tipo aerobico sub-massimale, costituiti da numerose contrazioni muscolari protratte nel tempo, contro resistenze relativamente basse, possono contribuire all’aumento della massa e della forza muscolare nei soggetti debilitati e dopo lunga immobilizzazione. Viceversa, in soggetti sani, che praticano una normale attività fisica, l’efficacia di questi esercizi ha effetto soprattutto sulla capacità cardiovascolare e sul metabolismo energetico. Allo scopo di ottenere un sostanziale miglioramento di forza, massa e performance muscolare, si rende necessaria l’introduzione di protocolli che comprendano esercizi anaerobici di potenza, ossia una serie, anche limitata, di contrazioni muscolari contro resistenze elevate.

È possibile prevenire e curare la sarcopenia a patto che si rispettino alcuni principi. Innanzitutto è molto importante identificare precocemente i soggetti con sarcopenia o a rischio di sarcopenia. Attualmente gli esperti sono in grado di diagnosticare la sarcopenia misurando la massa muscolare e la forza muscolare, mediante apparecchiature specifiche, e la velocità di cammino (in un tratto di 4 metri, è considerata normale una velocità maggiore o uguale a 0,8 metri al secondo). In assenza di strumenti specifici come quelli di cui si è detto, la presenza di sarcopenia può essere sospettata valutando la capacità di un soggetto in età avanzata di percorrere 400 metri in un quarto d’ora senza aiuto di persone o ausili. Laddove ciò non sia possibile è consigliabile rivolgersi ad un geriatra esperto.

In secondo luogo deve essere perseguita una dieta equilibrata e praticata in modo costante un’attività fisica. La dieta deve essere particolarmente ricca di proteine, distribuite equamente durante la giornata. Il muscolo, infatti, necessita di un costante ricambio delle cellule muscolari che si degradano e vanno incontro a morte (per cause naturali e per l’attività fisica) ed è molto importante che il rapporto tra sintesi e degradazione di proteine sia in equilibrio. In un soggetto che sta diventando anziano ciò può avvenire attraverso l’introito di proteine con l’alimentazione. Le raccomandazioni delle società scientifiche che si occupano di sarcopenia consigliano l’assunzione di 0,8-1,2 grammi pro-chilo di proteine al giorno (25/30 grammi di proteine di alta qualità ad ogni pasto, come carni magre, latte e suoi derivati, uova pesce e legumi), in assenza di malattie legate all’insufficienza renale. Qualora ciò non fosse possibile, può essere indicata l’assunzione di un supplemento nutrizionale orale completo e bilanciato. L’assunzione di proteine attraverso la dieta e/o i supplementi deve avvenire non solo al pasto principale ma in modo equilibrato suddividendo il fabbisogno tra colazione, pranzo e cena. Inoltre è importante che alla dieta sia abbinata una regolare attività fisica che svolge una funzione catalizzatrice della sintesi di proteine e favorisce pertanto il mantenimento di un’adeguata massa muscolare. L’esercizio di tipo aerobico (passeggiata, corsa leggera, nuoto, bicicletta) ma anche il sollevamento di piccoli pesi con l’ausilio di macchine e attrezzi in palestra sono consigliati per contrastare la sarcopenia.




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LA GRELINA

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La scoperta della grelina è stata riportata da Masayasu Kojima et al nel 1999. Il nome  è basato sulla sua funzione di "peptide di rilascio dell'ormone della crescita" (Growth Hormon Releasing Peptide), con riferimenti alla radice proto-indo-europeo "ghre" che significa crescere (to grow).

La grelina aumenta la ricerca e l'assunzione di cibo (proprietà oressizzanti) e diminuisce il consumo di energia (riducendo l'attività fisica). Alti livelli di grelina risultano pertanto correlati ad un aumento del peso corporeo soprattutto per quanto riguarda la massa grassa. Tutto ciò nonostante sia nota da tempo la sua capacità di stimolare il rilascio di GH attraverso l'attivazione del recettore dei GH-segretagoghi (GH-segretagogue receptor type 1 = GHS-R).
Considerato il ruolo biologico oressizzante della grelina, è ovvio che i livelli plasmatici di quest'ormone sono normalmente massimi nel digiuno, mentre raggiungono valori minimi dopo assunzione di cibo ed iperalimentazione. In uno studio, i livelli plasmatici di grelina si sono dimostrati significativamente superiori alla norma in un gruppo di ragazze bulimiche; tale riscontro potrebbe spiegare, almeno in parte, le crisi di iperfagia a cui è soggetto chi soffre di questo disturbo alimentare. Le concentrazioni di grelina nel sangue di persone obese appaiono invece inferiori a quelle di individui normopeso.
La produzione di grelina gastrica copre circa il 50-70% dei livelli circolanti, ma tale percentuale è soggetta a produzioni compensatorie da parte di pancreas, intestino, rene, polmone ed ipotalamo.
La soppressione del rilascio di grelina non sembra correlata alla semplice distensione delle pareti gastriche, quanto piuttosto all'arrivo nello stomaco di nutrienti specifici. La restrizione di sonno è associata ad una significativa riduzione della leptina (ormone della sazietà prodotto dal tessuto adiposo) e ad un aumento della grelina (ormone dell'appetito). Bloccare o neutralizzare l'azione della grelina sembrerebbe un approccio ragionevole per affrontare stati di obesità cronica (in tal senso si è pensato ad un possibile vaccino antiobesità); la somministrazione di un analogo sintetico della graelina risulterebbe invece utile per stimolare l'appetito in presenza di disturbi alimentari come l'anoressia. Ricordiamo comunque che la grelina è soltanto una delle tante sostanze implicate nell'intrecciata rete di mediatori chimici e nervosi, che presiede al controllo dell'appetito. Tra queste sostanze ricordiamo:
leptina, insulina, Peptide YY (PYY), CCK (Colecistochinina), CART (cocaine -anphetamine-regulated-transcript), Urocortina, Pro-opiomelacortina (POMC), a-MSH (Melanocyte Stimulating Hormone) (diminuiscono l'appetito, anoressizzanti).



I suoi livelli aumentano durante una dieta ipocalorica e intensificano la fame, il che rende difficile la perdita di peso.

Inoltre, essa colpisce il ciclo sonno / veglia, il comportamento di ricompensa-cerca, la sensazione del gusto e il metabolismo dei carboidrati. Questo ormone è prodotto nello stomaco e secreto quando lo stomaco è vuoto. Esso entra nel flusso sanguigno e colpisce la parte del cervello nota come ipotalamo, che regola gli ormoni e l'appetito.

Più alto è il livello, maggiore è la vostra sensazione di fame. Più basso è il livello, più completi ci si sente e più facile sarà mangiare meno calorie.
La grelina può suonare come un terribile, ormone ''distruggi dieta''. Tuttavia, in passato, questo ormone ha svolto un ruolo nella sopravvivenza, aiutando le persone a mantenere un livello di grasso corporeo sano.

Di norma, i livelli di grelina aumentano prima di un pasto, quando lo stomaco è vuoto. Poi diminuiscono poco dopo, quando lo stomaco è pieno. Mentre si potrebbe supporre che le persone obese hanno solo livelli più elevati, essi possono essere anche più sensibili ai suoi effetti. Alcune ricerche mostrano che i livelli in realtà sono inferiori nelle persone magre.

Altra ricerca suggerisce che le persone obese possono avere il recettore della grelina eccessivamente attivo, noto come GHS-R, che porta ad una maggiore assunzione di calorie.

Eppure, indipendentemente dalla quantità di grasso corporeo che si ha, i livelli di grelina aumentano e ci fanno sentire affamati quando si inizia una dieta ipocalorica. Questa è una risposta naturale per il corpo, che cerca di proteggere l'utente dalla fame.

Durante una dieta, aumenta l'appetito ed i livelli dell'ormone della sazietà, la leptina, scendono. Il tasso metabolico tende a diminuire in modo significativo, soprattutto quando si limitano le calorie per lunghi periodi di tempo. Per ovvie ragioni, questi adattamenti possono rendere significativamente più difficile perdere peso e tenerlo sotto controllo.

Gli ormoni e il metabolismo si regolano per cercare di riguadagnare tutto il peso perso.

Nel giro di un giorno che si inizia una dieta, i livelli di grelina inizieranno a salire. Questo cambiamento continua nel corso di settimane.

Uno studio sull'uomo ha riscontrato un aumento del 24% dei livelli di grelina dopo una dieta ipocalorica di 6 mesi.

In un altro studio, in coloro che seguivano una dieta per la perdita di peso da 3 mesi, i ricercatori hanno trovato i livelli quasi raddoppiati da 770 a 1.322 pmol / litro.

Durante una dieta di bodybuilding di 6 mesi, che raggiungono un livello estremamente basso di grasso corporeo attraverso restrizioni dietetiche severe, la grelina è aumentata del 40%.

Queste tendenze suggeriscono che più a lungo si è a dieta – e più grasso corporeo e massa muscolare si perde – più i livelli aumenteranno.

Questo comporta un aumento della fame, e quindi diventa molto più difficile mantenere il nuovo peso.

La grelina sembra essere un ormone che non può essere controllato direttamente con farmaci, diete o integratori. Tuttavia, ci sono alcune cose che si possono fare per aiutare a mantenere sani i livelli:

Evitare gli estremi di peso: Sia l'obesità che l'anoressia alterano i livelli di grelina;
Controllo dell'apporto calorico: Entrambi i pasti ad alto contenuto di carboidrati o ad alto contenuto di grassi riducono i livelli. Pertanto, il totale delle calorie conta più che la composizione della dieta;
Dare priorità al sonno: Poco sonno aumenta i livelli, ed è stato collegato ad un aumento della fame e aumento di peso;
Aumentare la massa muscolare: Una maggiore quantità di massa muscolare o minore massa grassa sono associati a livelli più bassi di grelina;
Mangiare più proteine: Una dieta ricca di proteine aumenta la pienezza e riduce la fame. Uno dei meccanismi alla base di questo è una riduzione dei livelli di grelina;
Mantenere un peso stabile: I cambiamenti di peso drastici e l'effetto ''yo-yo'' disturbano gli ormoni chiave, tra cui la grelina;
Ciclizzare le calorie: I periodi di maggiore assunzione di calorie sono in grado di ridurre gli ormoni della fame e aumentare la leptina. Uno studio ha osservato che 2 settimane con il 29-45% in più di calorie ha diminuito i livelli di grelina del 18%.




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LA MENOPAUSA

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L’età media in cui la maggior parte delle donne entra in menopausa è di 51 anni. Ma potrebbe anche iniziare prima o dopo (un riferimento può anche essere l’età della propria madre, solitamente si va in menopausa alla stessa età).

Il campanello d’allarme della menopausa è quello delle cosiddette “vampate” di calore causate dalla improvvisa dilatazione e costrizione dei vasi sanguigni, un sintomo abbastanza fastidioso che appare prima della menopausa e che potrebbe perdurare per i due anni seguenti.

Per molte donne la terapia ormonale a breve termine è la soluzione migliore per alleviare le vampate di calore ma soprattutto per prevenire la perdita della densità ossea associata spesso alla menopausa.

Attenzione però perché la terapia ormonale va altamente individualizzata e basata su esami specifici, sulla vostra anamnesi e la vostra storia di salute familiare. Se i rischi della terapia ormonale superano i benefici si possono valutare alternative per aiutare a gestire i sintomi della menopausa.

Negli ultimi decenni, il rapporto delle donne e della società con la menopausa è cambiato radicalmente, passando da un iniziale e deprimente disinteresse ad un'eccessiva strumentalizzazione a fini mediatici e commerciali. La crescente ondata di sensibilità nei confronti della menopausa e dei suoi problemi è infatti, almeno in parte, frutto del cosiddetto "business menopausale" fatto di farmaci, riviste, supplementi dietetici, istituti di bellezza e via dicendo.
Purtroppo, per certi aspetti, tutta questa affannosa strumentalizzazione dell'argomento finisce con il travolgere molte donne. La semplice rassegnazione, comune nei tempi passati, ha ormai lasciato il posto ad una sindrome ansiosa che mette a dura prova l'emotività femminile.
Sappiamo che la menopausa non è una malattia, abbiamo a disposizione diverse strategie per affrontare con successo eventuali problemi, ma la temiamo e vorremmo che quel giorno non arrivasse mai. E' questo, a grandi linee, l'attuale rapporto delle donne con la menopausa.

La menopausa è l'evento fisiologico che nella donna corrisponde al termine del ciclo mestruale e dell'età fertile. Nella menopausa termina l'attività ovarica: le ovaie non producono più follicoli ed estrogeni (ormoni femminili principali). Nell'uso comune del termine invece si indica soltanto una notevole diminuzione dei fluidi, coincidente con il periodo di climaterio femminile. Tale stato provoca una serie di mutamenti nella donna che riguardano gli aspetti trofici, metabolici, sessuali e psicologici, con una serie di manifestazioni che variano a seconda della persona e possono essere più o meno marcati, ma non tutti sono collegabili alla menopausa in sé, poiché influiscono altri fattori come il contesto familiare e sociale.

Normalmente l'età in cui si riscontra la menopausa, ovvero la fine della secrezione dei flussi mestruali, è fra i 45 e i 50 anni come media mondiale. Tale periodo anagrafico, secondo quanto pervenutoci, non ha subito rilevanti variazioni nel corso dei tempi: infatti anche all'epoca dei Greci e dell'impero romano l'età si aggirava intorno ai 45 anni.



Esistono aggravanti, fattori di rischio che interferiscono solitamente diminuendo l'età anagrafica di tale evento:

fumo della donna, sia attivo sia passivo, tale da indurre nella donna un'anticipazione dell'evento di 1,5-2 anni, la quantità di assunzione (numero di sigarette) e la durata di assunzione sono strettamente correlate alla diminuzione dell'età rispetto all'evento, in pratica più si fuma e da più tempo si fuma e più la menopausa si manifesterà prima del dovuto;
tipo di alimentazione, che può essere ritenuta assolutamente non adatta per colpa delle condizioni economiche del soggetto;
indice di massa corporea, se risulta inferiore a quello ideale;
abuso di alcool;
bassa statura.

La premenopausa è la fase caratterizzata dai primi squilibri ormonali: i livelli plasmatici dell'inibina diminuiscono mentre l'ormone follicolo-stimolante (richiamato in letteratura con l'acronimo inglese FSH) si riscontra maggiormente rispetto alla norma. Altri squilibri non compaiono: il ciclo e la quantità di estrogeni rimangono regolari fino ad un'età inferiore ai 40 anni. Continuando nel tempo si osserva sempre di più un innalzamento del FSH mentre i cicli diventano sempre di più anovulari, negli ultimi 30 mesi prima della menopausa.

Esistono numerose ipotesi per quanto riguarda la causa della menopausa, alcuni studi si sono concentrati sull'evoluzione del FSH e sulle gonadotropine cercando un coinvolgimento dell'asse ipotalamo-ipofisario ma attualmente l'ipotesi più accreditata è quella che la causa risieda nell'ovaio stesso. Infatti secondo tale teoria i follicoli, soggetti a deterioramento, vengono scelti dall'organismo stesso: utilizza dapprima i più resistenti, che nel corso degli anni devono essere sostituiti perché vengono consumati, ma all'atto della sostituzione i nuovi follicoli partono già danneggiati: questo comporterebbe la deplezione-atresia follicolare.

Oltre all'ovvia alterazione del quadro mestruale, (polimenorrea, oligomenorrea, ipomenorrea e ipermenorrea) in questa fase vengono espressi i primi disturbi di tipo psicologico, ansia, irritabilità, nervosismo e disforia.

Neurologicamente si assiste a un invecchiamento della persona, con conseguente diminuzione delle capacità di concentrazione e di memoria. Inoltre si nota un aumento del peso della persona. Fra le manifestazioni minori si può mostrare anche orticaria.

Fra le manifestazioni a livello vasomotorio le vampate di calore sono le più frequenti. Vi sono episodi di improvvisi sbalzi di temperatura, la donna comincia a sudare improvvisamente e sente vampate di calore, tali episodi si riscontrano in 65-75% dei casi e non a caso è uno dei sintomi principali. La percentuale cambia a seconda della zona, per via delle abitudini anche alimentari del luogo, nell'Indonesia ad esempio le donne che hanno tale disturbo si riducono dal 20 fino al 10%, in Cina invece la percentuale si ferma al 25%. Studi clinici hanno anche calcolato la durata del fenomeno che raramente supera i 6 minuti. Generalmente si manifesta anche nel 20% delle donne in premenopausa anche in condizioni ormonali nella norma. L'arrossamento coinvolge la testa e le parti limitrofe (viso, collo e nuca), mentre successivamente vi è un calo di temperatura fino a una sensazione di freddo. Per quanto riguarda la durata, sia della singola manifestazione sia della frequenza con cui si mostra, sono considerate molto variabili. Alcuni studi hanno studiato una correlazione della frequenza con la temperatura esterna: a basse temperature esse sono meno frequenti, mentre al contrario con alte temperature gli episodi aumentano. Un'altra correlazione è stata riscontrata durante la notte, dove contribuiscono ad avere un sonno disturbato. Infine per quanto riguarda la durata del sintomo spesso persistono anche per cinque anni dalla menopausa (anche se generalmente dura 1-2 anni). È ben documentata l'azione favorevole degli isoflavoni e derivati della soia sulle vampate.

Fra i fattori psicologici il più importante resta la depressione (la media calcolata è del 50% delle donne), ma l'espressione di tale disturbo cambia a seconda dell'etnia; ad esempio è stato mostrato come, rispetto alle donne bianche, le afroamericane risentano maggiormente di questa condizione psicologica.

La causa che comporta tale correlazione non è ben compresa, ma si pensa sia anch'essa un effetto della diminuzione degli ormoni, più precisamente della diminuzione dell'estradiolo, un ormone che viene prodotto dalle ovaie durante il ciclo mestruale. Fra l'altro è stato notato come persista soprattutto all'inizio, quando una donna entra nello stato di menopausa, spesso si hanno anche ricadute in tale evento.

Questa correlazione è discussa anche nel caso di donne che hanno subito isterectomia; alcuni studi statunitensi mostrano non esserci associazione, mentre altri studi canadesi invece mostrano peggioramenti dello stato depressivo delle donne.

Fra i disturbi legati all'attività di riposo notturna i più frequenti sono la difficoltà nell'addormentarsi, nelle donne più frequentemente si assiste a un sonno agitato, capita sovente che si sveglino durante la notte, e questo stato peggiora inizialmente, il disturbo più grave per quanto riguarda il sonno è la privazione di esso, l'insonnia, anomalia che può essere una complicanza della perimenopausa, diffusa soprattutto nelle donne ispaniche.

Successivamente cominciano le modificazioni a livello cutaneo, l'epidermide e il derma si assottigliano, in quest'ultimo caso si nota una diminuzione del collagene nella donna. Tali variazioni provocano le varie atrofie, che non riguardano soltanto l'apparato genito-urinario ma anche la cute in genere, diventando meno elastica e disidradata, ciò causa un aumento delle rughe e sensazioni di prurito, inoltre si manifestano artralgie a livello delle articolazioni distali (ginocchia, anca, colonna vertebrale), l'incidenza è del 50%.

Molti studi hanno dimostrato che con i cambiamenti ormonali della menopausa il desiderio sessuale nelle donne diminuisce, anche se studi e interviste effettuate confermano che le donne rimangono ancora soddisfatte del loro rapporto con il partner anche successivamente lo stato di menopausa. Inoltre vi è anche un aumento nella difficoltà nel praticare l'attività sessuale (si mostra la dispareunia, il dolore vaginale quando si tenta una penetrazione), disorgasmia e bruciore dopo il rapporto sessuale.

Per quanto riguarda l'atrofia vaginale, spesso tale evento si accompagna con cistiti e uretriti, essa porta spesso a quella che viene definita come la sindrome urologica della menopausa.

Nella fase finale si assistono a sintomi di carattere fisico caratteristici, fra i quali ci sono dolori muscolari, diminuzione della massa ossea all'origine dell'osteoporosi, calo di energia fisica, disturbi urinari. Recenti studi hanno anche rilevato un aumento della pressione arteriosa rispetto a quella delle donne fertili.

Una volta raggiunta la menopausa è stato registrato un aumento delle malattie cardiologiche però la mortalità dovuta a tale complicanza non è superiore rispetto a quella del cancro alla mammella. Il rapporto donna-uomo cambia dopo l'evento: prima si mostra un rapporto di 1:5, successivamente la differenza diminuisce notevolmente e superati i 70 anni l'incidenza risulta identica in entrambi i sessi. Tralasciando le conseguenze del solo fattore età, la diminuzione degli estrogeni comporta ipertriglicemia, diabete, ipertensione, dislipidemia oltre all'obesità, sono tutti fattori pericolosi per il lavoro del cuore e la loro manifestazione cumulativa porta a elevati rischi cardiologici. Studi recenti hanno dimostrato che nella fase della menopausa si riducono i livelli di HDL e aumentano i valori dell'apolipoproteina B.

Per una corretta diagnosi bisogna attendere 12 mesi dall'ultima mestruazione, ma dai 6 mesi in poi la probabilità è molto alta. Raramente, perché solitamente non è ritenuto necessario, si può effettuare il dosaggio di FSH.

Altro esame è lo screening per l'osteoporosi, complicanza comune, da effettuare soprattutto in persone dalla sesta decade.

Esistono diverse condizioni patologiche che possono comportare a manifestazioni simili alla menopausa:

Disfunzione della tiroide ( Ipotiroidismo e Ipertiroidismo )
Sindrome dell'ovaio policistico
Carcinoma dell'utero
Disturbi collegati alla ghiandola pituitaria ( ipopituitarismo e iperpituitarismo )

Per diversi anni è stato sperimentato, in Germania, un questionario basato su una scala di valori, denominata MRS, composta di 10 domande dirette alle donne nello stato di post-menopausa. I soggetti dovevano esprimere, tramite un punteggio graduato da 0 a 4, l'intensità dei sintomi, delle complicanze e delle valutazioni sul loro stato di salute, prima e dopo il trattamento che esse ricevevano. La validità del questionario è però messa in discussione da diversi anni e queste perplessità sono state tradotte in diverse lingue, dal messicano all'inglese.

Durante lo stato della menopausa è stata riscontrata una maggiore pericolosità per quanto riguarda le operazioni cardiache in genere e in particolare quelle che coinvolgono la valvola mitrale, ciò è sempre dovuto allo sbalzo degli ormoni nell'individuo; è stato calcolato che le donne di un'età racchiusa nel periodo 40-59 anni dimostra una mortalità più che doppia rispetto agli uomini della stessa età, tale rapporto diminuisce notevolmente sia prima sia dopo tale periodo.
Il periodo in cui la donna vive nello stato di menopausa comprende una buona parte della sua vita complessiva: infatti se da un lato l'aspettativa di vita media diventa sempre maggiore, dall'altro l'inizio della menopausa continua a collocarsi alla medesima età. Questo comporta un ampliamento sempre maggiore negli ultimi anni ma anche nel futuro del tempo in cui la donna vive la sua vita nello stato di menopausa. Le donne che vivendo in tale stato cercano un sollievo, una possibile cura sono soltanto una piccolissima parte, stimata, da studi effettuati intorno al 10%. Esiste una terapia sostitutiva con somministrazioni di estrogeni. Il trattamento normale varia e mira alla cura dei sintomi soprattutto quando essi sono troppo invadenti.



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LA FORFORA

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La forfora è costituita da detriti cellulari, cellule morte che si spargono sul cuoio capelluto. Queste cellule hanno origine negli strati bassi dell’epidermide e vengono spinte verso l’esterno dalle cellule giovani. In superficie le cellule vecchie muoiono e danno origine alla forfora.

Normalmente il ricambio delle cellule epiteliali del cuoio capelluto avviene regolarmente e l'eliminazione delle cellule morte come desquamazione dei tratti superiori dell'epidermide si verifica senza problemi, e una modestissima presenza di desquamazione è fisiologica.

Quando però la presenza di squame biancastre e secche è piuttosto elevata, si parla di forfora, che può essere sintomo della dermatite seborroica, che è quindi cronica. La forfora è un fenomeno molto diffuso che provoca imbarazzo e addirittura problemi di autostima in molte persone, tanto che la sua cura può essere importante anche solo per ragioni psicologiche.

Tipi di forfora:
Lieve, si deve ad un fungo che vive nel cuoio capelluto che ha il nome di Malassenzia, se questo fungo è particolarmente prolifero da origine alla forfora.
Dermatite seborroica, si tratta di una forma più grave di forfora e nello specifico è un’infiammazione del cuoio capelluto che può riguardare anche sopracciglia, orecchie e pelle nella zona di naso, guance e fronte. Il cuoio capelluto si presenta grasso e naturalmente si forma la forfora.
Psoriasi, ovvero la forma più grave della forfora, la pelle è infiammata e prude. La forfora è a scaglie spesse e si presenta con molta frequenza.

Colpisce maggiormente il sesso maschile, generalmente in un'età compresa tra i 12 e i 40 anni. È rara nei bambini e negli anziani. Colpisce un'alta percentuale di popolazione.



La prevenzione è possibile e dovrebbe essere molto attenta negli individui predisposti.

Le intolleranze ai latticini ad esempio, o alla frutta secca, al cioccolato o ai frutti di mare possono causare forfora. Quindi anche dal punto di vista alimentare possiamo ricercare delle cause: un consumo elevato di grassi, zuccheri e amidi può causare l’insorgere della forfora.

L'uso di shampoo con tensioattivi aggressivi può far peggiorare il quadro clinico.
L'eccessiva sudorazione del cuoio capelluto, che può indurre infiammazione locale e accentuare la desquamazione.
Fenomeni che possono produrre o accentuare l'irritazione del capo.
L'uso intensivo di prodotti per capelli come gel, schiume, lacche.
È buona norma non agire con fonti di calore (phon ad elevate temperature) o acqua eccessivamente calda (consigliabile dunque lavare i capelli con acqua tiepida e il resto del corpo alla temperatura desiderata).
Come regola generale vale il cercare di mantenere il più possibile la condizione naturale dei capelli, evitando prodotti chimici che ne alterino il pH e la salute.

Si usano lenitivi ed emollienti in base oleosa per facilitare il distacco delle squame, associati a shampoo cheratoregolatori e antinfiammatori. Molto utili in tal senso i prodotti a base di ketoconazolo e climbazolo. In casi importanti si ricorre agli steroidi applicati localmente. Utile un'integrazione a base di acidi grassi polinsaturi.

Il Ketoconazolo è un farmaco usato da molti anni nella terapia delle infezioni da funghi, ha rappresentato un vero passo avanti nel trattamento di queste condizioni. La sua azione sulla forfora fu scoperta per caso osservando il miglioramento in pazienti che venivano trattati per altre infezioni. Il farmaco inibisce la sintesi di una sostanza indispensabile al fungo per formare la sua parete cellulare, compromettendone così la crescita e la sopravvivenza. Applicato localmente in lozione al 2% consente una rapida eliminazione e l'attenuazione dei sintomi, e non viene assorbito in modo significativo. Infatti normalmente il ketoconazolo non comporta problemi di tollerabilità locale né rischi di sensibilizzazione. Deve essere applicato due volte alla settimana per un periodo di 2-4 settimane, lasciandolo a contatto con i capelli per 5-10 minuti. Successivamente, una applicazione ogni 7-14 giorni sembra in grado prevenire la ricomparsa del problema ma l'applicazione a lungo termine può dar luogo a fenomeni irritativi. Si hanno risultati migliori nei maschi che nelle femmine, probabilmente perché il minor numero di capelli dei primi consente un miglior contatto con la cute. Se si sono utilizzati corticosteroidi topici è bene lasciare passare due settimane prima di procedere al trattamento delle stesse aree con ketoconazolo.

Il solfuro di selenio (SeS2) riduce la velocità del ciclo di ricambio cellulare dell'epitelio. L'azione fungicida lo rende efficace, con alcune differenze rispetto a zinco piritione e al ketoconazolo. Come tutti i prodotti farmaceutici può avere effetti secondari, e può causare reazioni allergiche. Occorre lavare accuratamente i capelli dopo ogni utilizzo.

Lo zinco piritione, utilizzato due volte alla settimana, riduce la forfora ma anche dopo un trattamento prolungato non si ha una completa risoluzione dei sintomi.

Zinco piritione e solfuro di selenio non devono essere applicati in caso di abrasioni o lacerazioni della pelle e non devono venire a contatto con gli occhi.

Zolfo e catrame hanno un'azione antifungina molto bassa e sono scarsamente efficaci.

Nella forfora con presenza di irritazione dermatite seborroica possono essere utili i corticosteroidi che hanno un'azione antinfiammatoria. Alla sospensione del trattamento il problema si ripresenta rapidamente in una elevata percentuale di casi. Il solo controllo dell'infiammazione non risulta quindi importante quanto la soppressione del fungo. Se usati per molto tempo i corticosteroidi possono dare effetti indesiderati.

Non grattare la cute, per non danneggiarla e non dar luogo a dermatite. Usare pettini a denti larghi e pettinarsi più volte al giorno. Non toccare i capelli con le mani sporche. Non usare il phon caldo a distanza troppo ravvicinata. Tenere d’occhio l’alimentazione ed in caso assumere degli integratori.



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L' AMANTE

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Nell’Odissea si racconta dell’amore di Calipso per Ulisse e delle sue promesse di immortalità purchè non la lasciasse. Quando però Zeus costrinse Calipso a rinunciare al suo amore e Ulisse tornò da Penelope, la ninfa Calipso va incontro a una tragica fine. Nella mitologia Penelope viene venerata, mentre Calipso, che rinuncia all’amore, viene condannata. Ed è proprio la sensazione che prova chi per anni ha investito sentimenti, passioni e rinunce per rapporti clandestini di questo tipo, e spesso viene etichettata la rovina famiglie. E come capita nell’Odissea, anche nella vita spesso chi ci soffre alla fine è l’amante, perché quasi sempre viene lasciata o è costretta a lasciare.

Iniziare una relazione e con un uomo già impegnato mette in una situazione controversa: l’amante è colei che ruba ad un'altra donna l’amore e le attenzioni di un uomo, ed è derubata da questo del proprio amore perché si creano false aspettative. Tuttavia l’amante è sempre vista dalla società come colei che ruba un uomo; eppure difficilmente la donna lo fa per trasgredire, ma spesso ci mette cuore e affettività.

Le relazioni extraconiugali sono semplicemente avventure sessuali ma, in altri casi (e non sono pochi), può scattare l'innamoramento da parte di uno degli amanti o di entrambi.

Molte persone accettano di tenere il ruolo di amante per periodi davvero lunghi, pur essendo consapevoli del fatto che la maggior parte delle volte saranno destinate a soffrire e a mettere a repentaglio la propria autostima: chi finisce ad avere costantemente un tale ruolo parte da una situazione di solitudine che il più delle volte è destinata ad aumentare insieme alla delusione delle aspettative.



Essere amante di qualcuno significa condividere con esso solo momenti rubati, momenti che antecedono il ritorno a casa alla propria vita “ufficiale”. A molti può star bene così, sopratutto a chi, per vari motivi non è motivato ad instaurare dei legami “completi” e il ruolo di amante li preserva da questo.

La maggior parte degli amanti cerca di prendersi il meglio in quegli incontri rubati perché l’obiettivo è di staccare dalla reale quotidianità fatta di problemi, solitudine e apparenze impegnandosi a vivere in essi la migliore spensieratezza possibile.

Quando subentrano le delusioni, il rischio è anche quello di entrare in un circolo vizioso in cui si perde fiducia nelle persone. 

Decidere di essere l’amante è a volte una scelta non programmata, ci si arriva per tutta una serie di motivi che inizialmente possono non essere riconosciuti se non quando ormai il rapporto è già stato instaurato, quando ci si è fatti trascinare dalla passione e da situazioni ambigue non ben esplicitate. Ognuno può trovarsi nel ruolo del traditore, del tradito e dell’amante, a volte senza neanche rendersene troppo conto e, al di là di qualsiasi giudizio, si accettano soluzioni dolorose più per motivazioni irrazionali. 

Molto spesso le speranze dell’amante vengono alimentate da promesse e corroborate da continue lamentele dell’uomo sulla legittima consorte. Le classiche frasi come “mia moglie è fredda”, “con lei sono infelice”, “stiamo insieme per i figli”. E così l’amante si accontenta temporaneamente sperando e attendendo un futuro migliore, alimentato dalle promesse che prima o poi la situazione cambierà. Spesso quello che non si comprende però, è che il ruolo dell’amante non è di terzo incomodo, ma di terzo comodo, perché in un certo senso salva la coppia dando a lui ciò che gli manca, completando perfettamente il suo rapporto di coppia. Purtroppo, banalmente, gli uomini fanno difficilmente scelte coraggiose, e sono incapaci di separarsi sia dalla moglie che dall’amante.



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